La missione in Cina di Adolfo Urso che si è conclusa ieri era importante perché è stata la prima di un esponente dell’esecutivo dopo la decisione dell’Italia di non rinnovare il memorandum d’intesa sulla nuova Via della Seta, ufficializzata nel dicembre scorso. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy doveva verificare quali spazi per rafforzare la cooperazione economica con Pechino ha lasciato aperti lo strappo voluto da Giorgia Meloni per accreditare presso l’establishment internazionale i postfascisti Fratelli d’Italia e per evitare critiche nell’anno di presidenza del G7 (tra i “sette grandi” l’Italia era l’unico partner della strategia di politica estera di Xi Jinping).

La visita a Pechino di Urso è arrivata dopo mesi di colloqui chiarificatori Roma-Pechino e precede quelle della presidente del Consiglio (29-30 luglio) e del capo dello stato, Sergio Mattarella, atteso in Cina a novembre. Anche i 700 anni dalla morte di Marco Polo sono tornati utili alla diplomazia di Roma nell’ambito di una “charm offensive” per evitare di guastare i rapporti con la Cina, da cui la destra al governo spera ora di ottenere investimenti produttivi in Italia.

La mossa della presidente del Consiglio è arrivata in una fase propizia, mentre la Cina ha bisogno di rimanere agganciata alle filiere globali e a tal fine cerca sponde nell’Unione europea, per limitare i danni dell’embargo hi-tech e della guerra commerciale che le hanno dichiarato gli Stati Uniti. Urso – che un paio di settimane fa aveva accolto «con soddisfazione» i pesanti dazi provvisori sulle auto elettriche importate dalla Cina imposti dall’Ue – a Pechino ha invece assicurato che l’Italia è aperta a una «soluzione negoziale», cioè a una riduzione di quelle misure compensative che diventeranno definitive entro novembre, per restare in vigore cinque anni.

Del resto – secondo quanto annunciato dal Mimit – lo scopo della missione del senatore di FdI era quello di «favorire un bilanciamento dei rapporti Italia-Cina, ponendo le basi per un nuovo corso sulle sinergie industriali tra i due Paesi». A partire da quelle nel settore automotive (nella delegazione di Urso c’era Roberto Vavassori, presidente dell’Associazione nazionale filiera industria automobilistica), con il governo a caccia di un investitore cinese per tutelare i livelli occupazionali in Italia. In quest’ottica l’apertura manifestata da Urso sembra la proposta di uno scambio: il “sì” italiano alla mitigazione dei dazi in seno all’Ue, per ottenere gli investimenti cinesi in Italia auspicati dal ministero, «negli ambiti della tecnologia green e della mobilità elettrica» nonché «accordi riguardanti la proprietà intellettuale e la cooperazione tra le pmi».

Gli incontri

In due giorni Urso ha incontrato il ministro dell’Industria e dell’Informatica, Jin Zhuanglong e una serie di importanti player industriali, tra cui i presidenti dell’azienda automobilistica di stato Chery e i vertici della società JAC Motors, un altro produttore di stato.

Alla fine però Urso è rientrato a Roma senza aver concluso alcun accordo significativo. Ancora tanti buoni propositi, e l’annuncio della presenza dell’Italia alla Conferenza mondiale sulla mobilità elettrica e alla fiera annuale dedicata alle piccole e medie imprese che si terranno in Cina. Ancora nulla di fatto per l’agognato investitore cinese per fabbricare veicoli elettrici in Italia. Tutto rimandato alla visita di Meloni? Forse nemmeno, dal momento che per quel viaggio ieri è stata annunciata la firma di un altro memorandum, questa volta col ministero dell’Industria e della tecnologia di Pechino.

«Per l’Italia la Cina rappresenta il primo mercato in Asia, un mercato imprescindibile. Inoltre in Cina le nostre imprese hanno raggiunto un valore di stock aggregato pari a 15,5 miliardi di euro di investimenti diretti», dice Lorenzo Riccardi, presidente della Camera di commercio italiana in Cina.

Ma è chiaro che l’obiettivo del governo di «favorire un bilanciamento dei rapporti Italia-Cina» comunque non sarà facile da centrare, perché a Pechino considerano l’Italia un paese sempre meno rilevante, e perché sulla Via della Seta si è pur sempre consumato uno strappo. Non è un caso che il primo incontro ufficiale di Meloni con Xi (dopo che Macron e Scholz ne hanno avuti già due) arriverà a fine luglio, quando i leader cinesi avranno già pronte le valigie per trasferirsi nelle loro dimore di Biedaihe, la città balneare dove dai tempi di Mao si rifugiano per sfuggire alla calura estiva.

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