- Sono ormai passati dieci anni da quel 17 Febbraio del 2011, giorno della rivolta scaturita in alcune città libiche contro il regime del colonnello Mu’ammar Gheddafi.
- Con ogni potenza influente che aveva una visione divergente della Libia, il monopolio dell’uso della forza non si è mai ricostituito e la frammentazione è prevalsa.
- Il vuoto politico creato dalla ritirata dell’egemone americano nell’area mediorientale ha consentito agli attori regionali e alla Russia di rilanciare il proprio ruolo. La Libia è diventata il teatro di una sorta di guerra per procura.
Sono ormai passati dieci anni da quel 17 Febbraio del 2011, giorno della rivolta scaturita in alcune città libiche contro il regime del colonnello Mu’ammar Gheddafi. Fin dall’inizio della crisi gli attori esterni hanno avuto un’influenza decisiva: la Nato e i paesi arabi hanno avuto un ruolo fondamentale quando hanno iniziato a sostenere i rivoluzionari capovolgendo le sorti militari a loro favore, poi tutte le potenze esterne hanno iniziato a dividersi su chi avrebbe dovuto governare la “nuova Libia”, supportando così diversi attori sul campo. In questo quadro, con ogni potenza influente che aveva una visione divergente della Libia, il monopolio dell’uso della forza non si è mai ricostituito e la frammentazione è prevalsa.
La polarizzazione tra le forze “laiche” e i cosiddetti islamisti non ha avuto origine in Libia, ma è invece un prodotto del conflitto regionale tra diverse visioni della legittimità politica: Turchia e Qatar contro Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Pertanto, le forze esterne hanno e continueranno ad avere un’importanza eccezionale in questa crisi. Il vuoto politico creato dalla ritirata dell’egemone americano nell’area mediorientale ha consentito agli attori regionali e alla Russia di rilanciare il proprio ruolo. La Libia è diventata il teatro di una sorta di guerra per procura.
L’influenza russa
Il problema è che alcune potenze straniere che sono presenti in Libia, come la Turchia e la Russia, hanno intenzione di restare. È improbabile che se ne possano andare semplicemente dopo una chiamata dell’Onu, o su impulso del nuovo, e debole, governo di unità nazionale.
Occorre tenere in conto la possibilità concreta che la Libia diventi una piattaforma da cui la Russia potrebbe direttamente minare la sicurezza europea. Mosca ha ormai raggiunto un alto grado di autonomia nel paese, favorita dal fatto di essere stata fondamentale per Haftar, molto più di quando Haftar non sia stato, e non sia, fondamentale per Mosca: la presenza della Russia potrebbe dunque durare ben oltre quella del generale. Mosca ha avanzato le proprie pretese: ha rivendicato il porto, l’aeroporto e una grande base aerea militare a Sirte e Jufra. Il Comando Usa per l’Africa ha già lanciato l’allarme sul potenziale impatto di una presenza russa insidiata in Libia in modo permanente. Sistemi di difesa aerea russi potrebbero prendere di mira direttamente gli aerei che accedono alla base di Sigonella. Una base navale a Sirte estenderebbe chiaramente la proiezione russa nel Mediterraneo.
D’altronde anche l’Europa ha le sue responsabilità. Con troppa poca convinzione, l’Unione europea ha accompagnato la fase iniziale di costruzione dello stato in Libia, e troppo presto si è divisa su chi sostenere come nuovo leader libico. Il prodotto è stato un gioco a somma zero in cui hanno perso tutti, soprattutto Italia e Francia, i due paesi europei con i maggiori interessi in Libia.
Lavorare insieme
Oggi appare più chiaro che mai che per cercare di aiutare veramente i libici in questa difficile e lunga transizione e per far uscire il paese dalla crisi, europei e americani dovrebbero tornare a lavorare insieme. Un’amministrazione americana, quella di Joe Biden, che probabilmente ritornerà a un maggiore multilateralismo, e un’Europa realmente “più geopolitica” potrebbero adottare un approccio più pragmatico per bloccare e isolare gli spoiler locali e internazionali, ri-orientare il piano politico su obiettivi unificanti e sostenere una vera riforma del settore della sicurezza.
Per fare ciò è necessario un passo avanti in quella che il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi ha definito “sovranità condivisa” dell’Europa. I principali stati europei dovrebbero rendere la Libia una priorità della propria politica estera e superare gli approcci concorrenti e porre fine al gioco somma zero.
È importante che gli europei riconoscano il valore di questa opportunità e siano consapevoli di come una politica di successo in Libia possa affermare quel valore geopolitico dell’Europa, decantato dalla Commissione europea ma ancora non rinvenuto.
Contribuendo inoltre a respingere l’incedere russo verso il cuore del Mediterraneo.
Una missione europea
Per raggiungere i propri obiettivi strategici in Libia, gli europei devono smettere di fare affidamento sugli altri per fare il lavoro pesante, si tratti di intermediari libici o di una criticata missione di supporto dell’Onu che dispone di risorse insufficienti. Ciò implica coordinare e aumentare significativamente i propri sforzi per attuare il piano diplomatico delle Nazioni unite, impegnandosi molto di più per difenderlo dalle minacce: i tentativi di acuire le divisioni in Libia, l’inerzia alimentata da un’élite libica più interessata all’arricchimento personale che al progresso politico, e gli attacchi destabilizzanti da parte di stati stranieri.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di contribuire a creare un partner locale affidabile e preservare l’influenza europea. Per fare ciò si potrebbe coinvolgere l’alleanza atlantica; tuttavia, la presenza turca farebbe percepire ai libici che la Nato sta apertamente prendendo posizione nel conflitto. L’Unione europea dovrebbe invece far leva sulla possibilità di una nuova guerra intorno a Sirte (che potrebbe trascinare la Turchia e l’Egitto in uno scontro diretto) e sul trinceramento russo in Libia per far sì che vi sia un’ampia concordanza interna e internazionale sulla smilitarizzazione dell’area. Andrebbe presa in seria considerazione la possibilità di creare almeno una missione tecnica europea che trasformi l’Unione europea in una sorta di garante di alcuni accordi già esistenti, come quelli sanciti dal cessate il fuoco dell’estate scorsa.
Una missione tecnica europea potrebbe aiutare a progettare protocolli di smilitarizzazione e costruire un’istituzione di sicurezza condivisa.
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