- Francesca Albanese si è trovata nel raggio dei riflettori, e non da ora: è da quando è uscito il suo Rapporto, nell’autunno dell’anno scorso. Più recentemente, in concomitanza con le sollevazioni di piazza contro il governo delle destre estreme in Israele, è di nuovo oggetto di una campagna di diffamazione, a base di accuse di antisemitismo.
- Una campagna orchestrata precisamente da quelle forze governative israeliane, come il ministro Amichai Chikli, che negano apertamente il diritto dei palestinesi a esistere come gruppo nazionale. Vi si è accodato l’ex ministro Giulio Terzi, che in una lettera al ministro degli Esteri Antonio Tajani, cui Repubblica (20 aprile) ha dato ampio risalto, ha incongruamente richiesto la rimozione della Relatrice speciale dal suo incarico.
- Centinaia di associazioni, alcuni parlamentari e molti accademici hanno firmato una lettera aperta in sua difesa (il manifesto, 27 aprile). Sorprendente che ci sia stato bisogno di «difendere» un difensore della legalità, colpevole di aver svolto il suo compito con la precisione fattuale e l’esattezza normativa che il suo mandato esige. Ma non è ancora questo il problema filosofico. Questo è solo un fatto: è l’antico groviglio di violenza e ragioni di cui si diceva sopra, il tragico della storia.
Ci sono volti, fisionomie espressive, quasi direi figure vive dell’umano, che all’improvviso si ritrovano nel fascio di luce di un riflettore: non di quelli dozzinali, sulle ribalte televisive in cui si rappresenta sera dopo sera l’avanzata del nulla. No, penso al teatro del mondo, quando il riflettore di un pensiero nuovo illumina l’antico groviglio di violenza e di ragioni, di tragedia e progressi, che è la storia umana. Allora un volto, una figura viva pare improvvisamente incarnare un’idea.
E non è il volto a svanire nell’idea, ma l’idea a farsi viva, anzi vivida e vivace come solo una creatura umana riesce ad essere quando la passione del vero la possiede. O come Platone dipingeva le idee, appunto, dando loro anima, corpo, passione – e pianto e riso.
L’idea del diritto
Guardatevi il video dell’Un Special Rapporteur, Francesca Albanese, mentre presenta all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 27 ottobre 2022, il suo primo Rapporto sulla situazione dei diritti umani in Palestina e capirete cosa intendo.
Il confronto con il borborigmo monotono – da lettura telegrafica, per intenderci – della delegata dell’Unione europea rende l’idea. Anzi non la rende, se parliamo dell’Idea che si staglia nitida nella presentazione di Albanese, e che la delegata dell’Ue, come ogni altro delegato di nazione rappresentata all’Onu, dovrebbe condividere: l’idea del Diritto, che dovrebbe prevalere sull’Arbitrio e la Forza. Dei diritti umani individuali, violati. Del diritto collettivo per antonomasia – il diritto di un popolo all’autodeterminazione – negato. Il borborigmo eurocratico, in questo momento tanto decisivo per l’umanità europea, oltre che tanto drammatico per l’umanità tutta, uccide l’idea più di quanto la lettera uccida lo spirito, e gli azzeccagarbugli il fuoco della ragione pratica. C’è un problema filosofico qui, da sviscerare.
Una campagna di diffamazione
Francesca Albanese si è trovata nel raggio dei riflettori, e non da ora: è da quando è uscito il suo Rapporto, nell’autunno dell’anno scorso. Più recentemente, in concomitanza con le sollevazioni di piazza contro il governo delle destre estreme in Israele, è di nuovo oggetto di una campagna di diffamazione, a base di accuse di antisemitismo.
Una campagna orchestrata precisamente da quelle forze governative israeliane, come il ministro Amichai Chikli, che negano apertamente il diritto dei palestinesi a esistere come gruppo nazionale. Vi si è accodato l’ex ministro Giulio Terzi, che in una lettera al ministro degli Esteri Antonio Tajani, cui Repubblica (20 aprile) ha dato ampio risalto, ha incongruamente richiesto la rimozione della Relatrice speciale dal suo incarico.
Centinaia di associazioni, alcuni parlamentari e molti accademici hanno firmato una lettera aperta in sua difesa (il manifesto, 27 aprile). Sorprendente che ci sia stato bisogno di «difendere» un difensore della legalità, colpevole di aver svolto il suo compito con la precisione fattuale e l’esattezza normativa che il suo mandato esige. Ma non è ancora questo il problema filosofico. Questo è solo un fatto: è l’antico groviglio di violenza e ragioni di cui si diceva sopra, il tragico della storia.
Perché non c’è dubbio che lo sfondo sia una tragedia. O Una storia d’amore e di tenebra, per dirla con il titolo di Amos Oz ripreso da Enrico Franceschini, per sei anni corrispondente di Repubblica da Gerusalemme, nella sua ricostruzione della storia dello stato ebraico di Israele in sei puntate (la prima su Repubblica il 30 aprile), Terra promessa.
Un peccato originale?
Dove le tenebre sono certamente l’antisemitismo secolare che culmina nella Shoah e ancora ne sgocciola quando l’Europa e il mondo respingono i profughi ebrei nel Dopoguerra.
E sono anche quelle del «peccato originale», come lo definì Shimon Peres citato da Franceschini, dell’andare verso «una terra senza un popolo», omettendo il fatto che su quella terra «c’era un altro popolo», quello palestinese.
Questa omissione, certo, ha determinato il lunghissimo, crudele regime di occupazione della parte di Palestina assegnata nel 1947 dall’Onu ai palestinesi, che soprattutto dal 1967 ha visto una gigantesca crescita degli insediamenti coloniali, documentata dal Rapporto Albanese in tutte le sue fasi e nei suoi momenti – sottrazione di risorse, sradicamento, frammentazione, deprivazione di libertà fondamentali, distruzione dell’eredità culturale – fino a sottrarre al supposto futuro stato palestinese qualunque base economica, territoriale, esistenziale.
Ma neppure questo è ancora il problema filosofico. Fra l’altro in Israele la rimozione dal discorso pubblico di questa radice della spirale di violenza, che affligge (in diversa misura) entrambi i popoli, ha luminose eccezioni in associazioni, ricercatori, giornalisti.
Il problema filosofico è che la rimozione offuschi la coscienza europea proprio al vertice di quella costruzione di diritto sovranazionale e di universalismo morale che è l’Ue, tanto apparentata, nelle sue origini e nelle sue carte, alla Dichiarazione universale del 1948 e alla Carta dell’Onu del 1945, che pone gli «eguali diritti e l’auto-determinazione dei popoli» fra i suoi obiettivi primari, insieme con il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Ecco: se volete vedere non come vive, ma come muore l’idea del Diritto nell’impeccabile sorriso istituzionale di un’altra umana fisionomia, guardatevi il video del discorso della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per i 75 anni dello stato ebraico di Israele. «75 anni di vibrante democrazia» (pazienza se coronati dalla legge costituzionale del 2018 che sancisce la disparità di diritti fra due categorie di cittadini, ebrei e non-ebrei). «Avete fatto fiorire il deserto» (pazienza se sradicando decine di migliaia di ulivi nei Territori). «La vostra libertà è la nostra» (pazienza per quella del popolo palestinese).
Negoziare l’illegale?
È la normalizzazione dell’illegalità proprio da parte delle istituzioni nate a garanzia delle norme legali, il mistero filosofico. Ed è la denuncia di questo, che tanto ha irritato i critici di Francesca Albanese. È là che s’accende la sua passione per il vero.
Di tutte le critiche che dalle sue analisi discendono nei confronti dell’approccio alla questione israelo-palestinese da parte della comunità internazionale, è questa la più limpida e profonda, perciò la più imperdonabile: quand’anche fosse possibile, è lecito, eticamente e logicamente, «negoziare l’illegale»? Affidare il «processo di pace» a «negoziati bilaterali» sulla base del fatto illegale compiuto? No. «Una violazione del diritto internazionale non dovrebbe essere soggetta a negoziazione, perché questo legittimerebbe ciò che è illegale».
È vero: Ben Gurion rifiutò di indicare, nella Dichiarazione di indipendenza, i confini di Israele, affermando, come ci ricorda Franceschini, che «lo stato che proclameremo al termine della guerra non nascerà da una risoluzione dell’Onu, bensì da una situazione di fatto».
Questa, indubbiamente, è la realtà della storia e la legge della forza. Può diventare anche l’idea del diritto? O non ne è il suicidio? La voce “speciale” dell’Onu questa volta ci dice con passione e fermezza: «Occorre cambiare paradigma». E questo, per intera comunità internazionale, è il “pensiero nuovo” di cui si diceva all’inizio. Nuovo ogni volta che rinasce vivo, come la prima volta, con Platone.
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