Più che sul ritorno di Donald Trump, negli ultimi giorni i media e la diplomazia di Pechino sembravano concentrati sugli esiti del vertice dei Brics in Russia e sul China International Import Expo (Ciie) che si è chiuso ieri a Shanghai. Certo, i dazi minacciati da Trump rappresentano un pericolo, ma è anche vero che negli ultimi anni gli scambi della Cina - in risposta alle misure protezionistiche già varate dalle economie più avanzate - si sono molto diversificati. Basta guardare i dati del commercio bilaterale del 2023: 739 miliardi con l’Ue, 576 con l’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico, 575 con gli Usa, 489 con l’America latina, 282 con l’Africa, 242 con la Russia.

E così le presidenziali Usa hanno rappresentato anzitutto un ghiotto boccone per l’apparato di propaganda più sofisticato e pervasivo della storia dell’umanità. I video del proiettile sparato da Thomas Matthew Crooks che il 13 luglio scorso ha quasi ucciso il candidato Trump, delle ripetute minacce di The Donald ai democratici, di Washington in stato d’assedio in vista di possibili violenze, sono stati trasformati in altrettanti spot per il partito comunista. Il messaggio dei filmati che hanno inondato i social fa presa, soprattutto sui giovani cresciuti nell’era di Xi Jinping: il caos (luàn) sta indebolendo le democrazie liberali, mentre la Cina del partito unico è rafforzata dalla sua armonia (héxié) socialista-confuciana.

Traumatizzati dai dazi del primo mandato del magnate repubblicano (2017-2021), erano un paio d’anni che a Pechino si preparavano al possibile ritorno di The Donald, col quale giovedì Xi Jinping si è congratulato, telefonandogli per auspicare «una relazione Cina-Usa stabile, sana e sostenibile, nell’interesse comune dei due paesi e nelle aspettative della comunità internazionale».

Trump affiderà un ruolo importante a Elon Musk, per la cui Tesla la Cina è un mercato strategico e che ha rapporti con Li Qiang, il numero due del partito che ha aperto le porte di Shanghai alla sua Gigafactory 3? Nell’attesa di conoscere i funzionari di cui si circonderà (potrà contare comunque sulla maggioranza repubblicana al Senato, decisiva per la politica estera), va ricordato che Trump è il primo presidente Usa ad aver chiamato, nel 2016, il capo del non-stato taiwanese per complimentarsi per la sua elezione; che nel 2017 ha firmato la prima strategia di sicurezza nazionale Usa apertamente anti-cinese; che l’anno successivo ha scatenato contro Pechino una guerra commerciale; che sempre nel 2018 ha lanciato la liberticida China Initiative; e che durante la pandemia di Covid-19 ha dipinto la Cina come untrice globale.

Chi ha l’iniziativa

Con la Cina il Trump II non potrà che essere ad alta tensione. Anche perché – proprio durante il Trump I - Pechino ha cambiato le carte in tavola delle relazioni sino-statunitensi così come erano state impostate dal 1979 con l’America di Jimmy Carter. Il riconoscimento della Repubblica popolare cinese da parte del 39° presidente Usa aprì il percorso che avrebbe permesso alla Cina di trasformarsi nella fabbrica del mondo al centro della globalizzazione guidata dalle corporation a stelle e strisce. Dopo quarant’anni di crescita, al XIX congresso del partito (18-24 ottobre 2017), Xi ha annunciato una “Nuova era” che è il coronamento di un percorso intellettuale-politico-economico iniziato con la campagna di “auto-rafforzamento” nella seconda metà dell’Ottocento, i cui frutti stanno terremotando i mercati globali, con il made in China che oggi compete in settori ad alto valore aggiunto in precedenza appannaggio dei paesi più avanzati. Inoltre Xi ha osato dire al mondo che la Cina vuole diventare ricca, rafforzare il suo esercito (fùguó qiángbīng) e contribuire a un nuovo ordine “multipolare”.

Donald Trump scatenò la guerra commerciale nel 2018, qualche mese dopo quella storica assise, mentre le strategie di sicurezza nazionale sia di The Donald, sia di Joe Biden hanno messo al centro la Cina: come “concorrente”, “avversario”, “rivale”, in grado di sfidare l’egemonia Usa.

Biden si è opposto all’iniziativa di Pechino attraverso il contenimento hi-tech e il rafforzamento delle alleanze internazionali degli Usa. Trump invece punta a colpire “brutalmente” i commerci di un paese tuttora dipendente dall’export.

Taipei merce di scambio

Ma se davvero Trump dovesse imporre dazi a destra e a manca (anche se in misura minore di quelli annunciati), la Cina - come ha anticipato il premier Li Qiang aprendo lunedì il Ciie di Shanghai - potrà affermarsi come «forza che dà stabilità all’economia mondiale e fermo sostegno alla globalizzazione». Inoltre il protezionismo trumpiano potrebbe favorire un riavvicinamento tra Pechino e Bruxelles. Ieri l’ambasciatore dell’Ue a Pechino, Jorge Toledo, ha dichiarato che «ciò che è accaduto un paio o tre giorni fa negli Stati Uniti… può anche essere un’opportunità per la Cina e l’Europa di riprendere relazioni più normali. Perché ora siamo in un momento difficile. Non possiamo nasconderlo. Vogliamo, in Europa, riprendere relazioni normali ed eque con la Cina, soprattutto per quanto riguarda le relazioni commerciali e di investimento».

E occhio a Taiwan, che The Donald considera soprattutto come una pedina da scambiare: minore sostegno politico e militare a Taipei, in cambio di una riduzione del deficit commerciale con la Cina.

Un’America più chiusa in se stessa che non si cura più di tanto delle sue tradizionali alleanze, la possibilità di riavvicinarsi all’Europa, più spazio per far avanzare la “riunificazione pacifica” di Taiwan. Apparentemente a Pechino avrebbero di che brindare. Ma è pur vero che i rapporti Cina-Stati Uniti - la «rinnovata competizione tra grandi potenze» come la definiscono a Washington - sono ormai entrati una fase critica nella quale forse nemmeno a un personaggio con le caratteristiche di Trump sarà permesso di cambiare più di tanto le carte in tavola.

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