- I vantaggi derivanti dall’integrazione delle aziende nazionali della difesa saranno ridotti se non si procede a una maggiore armonizzazione delle leggi nazionali sull’export di armamenti diretti verso paesi extra-Ue e non-Nato.
- L’esportazione di prodotti bellici realizzati da più aziende deve essere autorizzato da tutti gli Stati coinvolti, ma la mancanza di un’unica legislazione comune europea rischia di generare una situazione di impasse costante.
- La soluzione però non è necessariamente l’adozione di norme più permissive. Con la riduzione dei costi di produzione e la diminuzione delle concorrenza interna all’Ue si possono finalmente mettere al centro il rispetto dei diritti umani e dei valori di cui l’Unione è portavoce.
Più cooperazione e rafforzamento dell’industria della Difesa dell’Ue. Sono questi i due pilastri su cui poggia il piano del presidente francese Emmanuel Macron, da tempo impegnato nel promuovere una maggiore armonizzazione dei programmi europei nel campo della difesa, tanto sul piano militare quanto su quello industriale. Secondo l’inquilino dell’Eliseo, l’Unione deve avviare programmi di acquisizione comuni che consentano una maggiore interoperabilità tra le forze armate dei singoli paesi, andando quindi oltre le logiche prettamente nazionali, e creare le condizioni per una maggiore cooperazione a livello industriale. Gli obiettivi sono principalmente due. Da una parte, evitare che più paesi portino avanti progetti simili tra di loro, prediligendo invece un approccio comune che comporti tanto una diminuzione dei costi di sviluppo quanto una riduzione della competizione tra le aziende europee. Dall’altra, rispondere in maniera coordinata al bisogno degli Stati di rimpinguare gli arsenali, ridottisi a causa dell’invio di armamenti a Kiev, facendo sì che i prodotti acquistati siano compatibili tra di loro così da accrescere l’interoperabilità delle forze armate, prediligendo il più possibile il mercato europeo.
Ma nel discorso portato avanti da Macron resta fuori un elemento importante: l’export. A livello europeo le esportazioni di materiale bellico sono regolate dalla Posizione comune del 2008, che impone limiti precisi alla vendita di armamenti e istituisce un meccanismo di comunicazione tra gli Stati per evitare che le autorizzazioni che non sono state concesse da un paese siano invece rilasciate da un altro. La Posizione comune però, pur essendo giuridicamente vincolante, non prevede la creazione di un organo sanzionatorio per cui le violazioni dei principi che la caratterizzano restano impunite. D’altronde tutto ciò che riguarda la politica estera, esportazione di materiale bellico inclusa, è di competenza nazionale, motivo per cui i margini di manovra delle istituzioni europee sono particolarmente ristretti. Ciò rappresenta da sempre uno dei limiti dell’Unione, ma nel momento in cui si punta ad un maggior coordinamento delle industrie della difesa il bisogno di affrontare la questione si fa sempre più impellente. Ma una regolamentazione più permissiva non è necessariamente la risposta migliore.
Le legislazioni nazionali
Ogni paese dell’Unione ha le proprie regole sulle esportazioni militari. Alcuni si sono dotati di legislazioni più permissive, mentre altri hanno imposto maggiori limitazioni all’export nel tentativo di tutelare i diritti umani e i valori democratici, pur finendo molto spesso con l’agire in violazione delle loro stesse leggi. Esempio emblematico è la differenza tra Francia e Germania, i paesi Ue che esportano il maggior numero di prodotti bellici. Parigi ha un atteggiamento più permissivo, tanto che i maggiori acquirenti della sua industria della Difesa sono Arabia Saudita, Egitto, India e Qatar. Tra gli accordi più importanti siglati negli ultimi anni rientrano per esempio quello per la vendita di 80 caccia Rafale agli Emirati e di altri 30 all’Egitto, al cui presidente è stata conferita anche la legione d’onore. Proprio durante questa cerimonia, Macron ha dichiarato che gli interessi economici e politici della Francia non possono essere messi in secondo piano rispetto alla tutela dei diritti umani. Una posizione che ben si riflette nelle esportazioni di armamenti francesi autorizzate dal governo e dirette prevalentemente verso paesi che violano i diritti umani e coinvolti in conflitti armati.
La Germania invece ha una legislazione maggiormente restrittiva, anche se il governo Merkel ha più volte agito in contrasto con quanto previsto dalle leggi nazionali vendendo armamenti a regimi autoritari come l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi o alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Una situazione che sarebbe dovuta cambiare con il nuovo esecutivo guidato da Olaf Scholz. Il programma della coalizione formata da Partito socialdemocratico, Liberali e Verdi prevede infatti l’adozione di regole più stringenti sia a livello europeo che nazionale a partire dalla Posizione comune Ue, nonché maggiori controlli post vendita. La proposta tedesca implicherebbe anche un decentramento a livello europeo del potere decisione relativo alle autorizzazioni per l’export tramite la creazione di un unico quadro giuridico valido per tutti i paesi membri, ma l’idea è stata subito rigettata da Parigi, ben poco propensa ad accettare qualsiasi limitazione in materia di difesa.
Controversie sull’export
L’adozione di norme differenti rappresenta però un problema nel momento in cui si deve procedere con l’export di materiale bellico prodotto da più industrie della difesa verso paesi extra-Ue e non-Nato. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, per esempio, diversi governi europei non hanno potuto cedere all’esercito di Kiev quegli armamenti prodotti in tutto o in parte da aziende tedesche a causa del veto di Berlino. Il governo Scholz nei primi mesi del conflitto ha infatti vietato il trasferimento di materiale bellico tedesco appartenente al proprio arsenale così come a quello di altri Stati europei perché in contrasto con le proprie politiche sull’export verso zone di conflitto.
Con il tempo Berlino ha modificato la propria posizione, anche dietro pressione degli Stati Uniti e degli alleati Nato, ma il problema di fondo resta e continuerà a ripresentarsi, come sanno bene a Parigi. Francia e Germania sono entrambe impegnate nella realizzazione del Future Combat Air System (o Fcas), il caccia di sesta generazione la cui entrata in servizio è prevista per il 2040. Mercato di riferimento del Fcas è prima di tutto quello europeo, ma difficilmente le mire della Francia si limiteranno ai soli Stati membri dell’Unione. L’Eliseo ha più volte usato il caccia Rafale di produzione interamente francese come strumento di politica estera ed è facile immaginare che vorrà fare lo stesso anche con il nuovo caccia. La presenza dell’azienda Aribus nel progetto potrebbe però complicare i piani francesi proprio a causa delle restrizioni all’export bellico fuori dai confini Ue e Nato previste dalla legislazione tedesca.
Armi o diritti
Questo tipo di impasse rischia di presentarsi con maggiore frequenza nel momento in cui l’Unione intende rafforzare la collaborazione tra le industrie della difesa europee. In un simile scenario, l’export gli armamenti realizzati da più aziende e diretto verso paesi che non fanno parte dell’Ue e della Nato deve essere autorizzato da tutti gli Stati coinvolti, il che rende meno competitivi i prodotti bellici europei. Da qui la necessità di armonizzare non solo le politiche industriali, ma anche quelle relative alle esportazioni fuori dal contesto europeo e dell’Alleanza atlantica. In un’ottica non necessariamente più permissiva, ma anzi maggiormente attenta al rispetto di quei valori di cui l’Ue si è fatta portatrice.
La messa in comune dei progetti della difesa avrebbe due principali effetti positivi. La condivisione dei costi con una conseguente diminuzione delle spese in capo alle singole aziende nazionali, molto spesso a partecipazione statale o strettamente legate al governo, e la riduzione della concorrenza tra paesi membri. In questo modo, le imprese non avranno bisogno di vendere i propri prodotti bellici anche a governi autoritari per recuperare i costi di produzione e i governi Ue potranno essere più liberi nel negare una determinata autorizzazione in mancanza di concorrenza a livello europeo. Evitando così di vendere armamenti a quei paesi che rischiano di diventare un giorno dei “nemici”, come nel caso della Russia.
A questo punto però bisognerebbe anche riconsiderare il valore politico delle esportazioni militari, usate come mezzo per stringere alleanze con regimi autocratici considerati strategici per la tutela degli interessi nazionali, e mettere finalmente al centro la tutela dei diritti umani e della democrazia. O ammettere che questi valori non valgono al di fuori dei confini europei.
© Riproduzione riservata