- Biden ha reso la cosa ufficiale: si candiderà per la rielezione. Sia euforia che disperazione sono fuori luogo.
- Voterò per lui perché considero il partito repubblicano una forza maligna nella politica americana. Come candidato ha diversi punti deboli, la sua vecchiaia in primis e un indice di gradimento non alto.
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Ma Biden ha dalla sua parte un grande punto di forza: il suo ordinario patriottismo americano e la difesa della normalità, soprattutto di fronte a una destra che parla del paese in un modo che ricorda un incubo distopico
Biden ha reso la cosa ufficiale: si candiderà per la rielezione. Voterò per lui perché considero il partito repubblicano una forza maligna nella politica americana. La penso così dal 2004 e ho votato così di conseguenza. Diciamo che gli eventi dal 2016 non hanno che rafforzato in me quest’idea.
Se suona più come un voto contro i repubblicani che un voto a favore dei democratici è perché è così, nel senso che so che non voterò per il candidato repubblicano, ma allo stesso tempo votare per i democratici non è automatico. (Non votare affatto è sempre un’opzione).
Ho in mente alcuni democratici ai quali avrei fatto molta fatica a dare il mio voto. Ma non mi sono ancora trovato di fronte a questo genere di dilemma in una sfida presidenziale. Negli ultimi vent’anni sostenere un candidato democratico non è mai stato un problema o una fatica per me. Non mi ha tormentato votare per John Kerry, Barack Obama (due volte), Hillary Clinton o Biden nel 2020, e non soffrirò nel votare per Biden, nuovamente, tra poco più di diciotto mesi. Che affronti Donald Trump, Ron DeSantis, Tucker Carlson o qualche altro populista di destra alle elezioni generali (un non populista non ha chance di superare le primarie repubblicane), la scelta sarà semplice: Biden avrà il mio voto.
Ma questo non significa che ne sia entusiasta.
Quello che non va
Cominciamo dagli aspetti negativi.
Joe Biden ha ottant’anni ora. Ne compirà ottantadue qualche settimana dopo l’elezione del 2024. E (se effettivamente sarà rieletto) si preparerà a lasciare la Casa Bianca nel gennaio 2029, dopo aver appena compiuto 86 anni.
È vecchio. E appare e sa di vecchio. Biden si è candidato alla presidenza l’ultima volta nel mezzo della pandemia più letale del secolo, che gli ha permesso di fare campagna elettorale virtualmente, dall’ufficio di casa, per gran parte della corsa. Questa opzione non ci sarà questa volta. Sarà all’altezza? Quanto storpiata e biascicata si farà la sua sintassi andando da un capo all’altro di questo paese enorme per mesi? Reggerà nei dibattiti contro il rivale repubblicano? Le domande trovano risposta da sé. L’unica cosa che non sappiamo per certo è quanto questo conterà.
Dall’estate del 2021, a sei mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, l’indice di gradimento di Biden si è assestato intorno al 40 per cento, e talvolta (durante l’estate scorsa) è sceso tra il 35-40 per cento. È lo stesso intervallo tra cui ha oscillato Trump per quattro anni. La media di Biden può essere di un punto maggiore, ma la differenza è impercettibile. Questo non significa che Biden non possa vincere, specialmente se il suo avversario è più impopolare di lui. Ma non significa nemmeno che la rielezione sarà un gioco da ragazzi.
Sappiamo poi che, salvo notevoli miglioramenti (ed estremamente improbabili) delle sue capacità politiche e della sua immagine pubblica, la vicepresidente Kamala Harris non porterà alcun contributo positivo alla campagna. Anzi, è più probabile che sarà un peso.
Cosa succederebbe poi se Biden diventasse inabile o morisse da qui a novembre 2024? Se succedesse presto, il partito avrebbe la possibilità di avere delle primarie come aiuto nel decidere un’alternativa possibile a Harris. Ma a un certo punto potrebbe essere troppo tardi e i pezzi grossi democratici potrebbero preferire affidarsi a lei per non provocare una lotta nelle file razziali all’interno del partito.
Non mi piace affatto contemplare scenari simili, oppure il pensiero che la maggiore fragilità di Biden questa volta contribuisca a far sì che gli elettori guardino più da vicino la persona che più probabilmente della maggior parte dei vicepresidenti possa finire promossa alla posizione più alta. Questo potrebbe tranquillamente trasformare un peso in una macina al collo.
Quello che va
La più grande forza di Biden come candidato non sono i suoi risultati, che sono solidi ma modesti. O l’agenda politica futura (che con la Camera in mani repubblicane) è piuttosto ridotta. O il suo posizionamento ideologico, che è più moderato sui temi culturali di quanto dovrebbe essere (difesa del diritto di abortire, ma non illimitato; forte difesa dei diritti dei transgender americani contro il bullismo e la crudeltà della destra, ma nessun sostegno per l’“assistenza di genere” per i minori o l’etichetta di bigotti a chi critica questo tipo di assistenza; ecc.)
No, la maggior forza di Biden è il suo ordinario patriottismo americano e la difesa della normalità.
Il modo in cui la destra parla del paese ricorda un incubo distopico: l’economia nel caos, le città devastate dalla violenza, gli americani che si scannano l’uno contro l’altro, sull’orlo di una guerra civile. Non diresti mai che la disoccupazione è estremamente bassa (3,5 per cento); l’inflazione al 5 per cento (superiore alla norma negli ultimi decenni, ma in calo rispetto all’impennata dell’ultimo anno e mezzo); e il crimine violento, pur essendo aumentato rispetto a un decennio fa, è ancora molto al di sotto rispetto al punto in cui era negli anni Novanta, e sta diminuendo.
È un mix bilanciato. Abbiamo dei problemi, ma i problemi ci sono sempre. Un paese non sull’orlo di una crisi di nervi cerca di affrontare le sfide. Non perde ogni prospettiva, non fa i capricci e minaccia di fare pasticci ulteriori. Il punto di Biden per la rielezione è che i repubblicani sono sgangherati, mentre lui e il suo partito non lo sono.
Questo è ciò che presumo sia il significato implicito di Biden, che ancora una volta lancia la “lotta per l’anima dell’America” nel video di annuncio. Con Trump comodamente sistemato alla Casa Bianca quattro anni fa, quel messaggio prometteva un esorcismo contro i nostri demoni. Con Biden presidente, quello stesso messaggio ricorda al paese che i nostri demoni girano ancora a piede libero e minacciano di impossessarsi ancora una volta di noi, suscitando un altro episodio di follia nazionale.
Vogliamo la calma? La sobrietà? La politica normale? Il pragmatismo nell’affrontare i problemi che ci si presentano? Allora c’è una sola scelta a novembre 2024: votare Biden/Harris.
La dura verità
Ma ecco come stanno le cose. La metà del paese all’incirca è convinta (o convincibile) del punto di vista opposto: che le cose vanno male e stanno peggiorando, che i mali li hanno causati esclusivamente la sinistra e tutti quelli che non erano sufficientemente impegnati a combatterla e sconfiggerla.
Finché la situazione rimarrà così un candidato repubblicano alla presidenza sarà competitivo. Sì: anche se il suo nome è Trump (o DeSantis).
Mi preoccupo tutte le volte che vedo segnali del fatto che i democratici negano questa realtà. È vero che i democratici sono andati molto bene nelle elezioni di midterm del 2018. È vero che Biden ha sconfitto Trump nel 2020 con sette milioni di voti. È vero che i repubblicani hanno avuto risultati al di sotto delle aspettative nelle elezioni di midterm del 2022. Spesso sento i liberali (e alcuni conservatori anti-Trump) indicare questi fatti per suggerire che Trump è un perdente che ha condotto il suo partito a tre sconfitte di fila, dimostrando di essere un infallibile super perdente per il 2024. Forse.
Ma chi sostiene queste tesi dovrebbe davvero tenere a mente alcuni fatti contrari. Innanzitutto, anche se le elezioni di midterm sono andate bene per i democratici (hanno guadagnato 41 seggi), l’oscillazione tra partiti è stata molto più ampia per i repubblicani nel 1994 (54 seggi) e nel 2010 (63 seggi).
In secondo luogo, Trump è arrivato ad appena 42.900 voti in Georgia, Arizona e Wisconsin dall’eguagliare Biden nel Collegio elettorale nel 2020. (Ovviamente Trump ha vinto la presidenza quattro anni prima battendo Clinton per soli 80 mila voti in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, rendendo le elezioni del 2020 di un soffio più vicine a quelle del 2016.) Se Biden e Trump avessero entrambi ottenuto 269 voti elettorali nel 2020, questo avrebbe lanciato le elezioni alla Camera dei rappresentanti, dove il maggior numero di delegati repubblicani avrebbero dato la vittoria a Trump.
Quanto alla deludente prova dei repubblicani nel 2022, è stata abbastanza palese. Eppure, nonostante le perdite che gli estremisti negazionisti e la rabbia diffusa tra le donne pro-choice per il ribaltamento della Corte Suprema Roe v. Wade hanno causato, il partito repubblicano è comunque riuscito a ottenere più di tre milioni di voti in più (o il 50,6 per cento) rispetto ai democratici (47,8 per cento) alle elezioni per la Camera dei rappresentanti. I repubblicani continuano poi a controllare molte più camere negli stati e godono di più triplette di partito (quando un partito controlla entrambe le camere nella legislatura e il governatorato in uno stato) rispetto ai democratici.
Il punto per me non è che i repubblicani abbiano la meglio nella nostra politica. È che non ce l’abbia nessuno dei due partiti. Come ho sostenuto molte volte nell'ultimo anno, siamo un paese profondamente diviso, con poco distacco tra le parti. Non ci vuole molto perché un partito prevalga sull’altro nel nostro sistema elettorale in cui il vincitore si prende tutto.
Il ché significa che le elezioni del 2024 ci terranno col fiato sospeso. Con l’avvicinarsi delle elezioni so da che parte stare: con Joe Biden. Spero solo che un numero sufficiente di americani sia allo stesso modo determinato a consegnargli la vittoria o, meglio ancora, una chiara e inoppugnabile sconfitta del suo avversario.
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