- Hossam Bahgat, direttore e fondatore dell’organizzazione per cui collaborava Patrick Zaki, è stato condannato a una multa di 10.000 sterline egiziane da un tribunale economico del Cairo per «diffusione di notizie false» e per «aver criticato l’autorità elettorale egiziana tranite i social media»
- Bahgat era finito sotto processo per un tweet che criticava il presidente della Commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020. Parole che gli erano costate un'indagine e poi il processo iniziato a settembre e conclusosi con una sentenza quasi sorprendente per i canoni egiziani
- La sentenza stride con la situazione di Patrick Zaki, il ricercatore e studente dell’Università di Bologna, che è in carcere da 21 mesi e il cui processo riprenderà il prossimo 7 dicembre.
Quando Hossam Bahgat ha varcato la porta del tribunale per i reati economici del Cairo non sapeva se ne sarebbe uscito da uomo libero. Ore di attesa, come sempre capita nelle corti egiziane, poi il verdetto. È colpevole di «diffusione di notizie false e di aver attaccato l’autorità elettorale con i social media». Ma la pena è una multa di 10mila sterline locali (566 euro) e, dunque, niente carcere.
Il direttore e fondatore di Eipr (Egyptian Initiative for Personal Rights), l’organizzazione per cui collaborava Patrick Zaki e a cui appartiene il suo team legale, rischiava sino a tre anni di detenzione.
L’organizzazione nel mirino
L’uomo era sotto processo per aver criticato con un tweet il capo della commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020: «Ha supervisionato le elezioni più fraudolente dal 2010 e forse dal 1995 (negli anni di Hosni Mubarak, ndr)», aveva scritto Bahgat un anno fa.
Un’affermazione che gli è costata un’indagine e poi il processo iniziato a settembre e conclusosi ieri con una sentenza quasi sorprendente per i canoni egiziani, ancora di più perché Bahgat fa parte di una delle organizzazioni più colpite dal governo dal 7 febbraio del 2020 quando il loro collaboratore Patrick Zaki è stato arrestato all’aeroporto del Cairo mentre rientrava da Bologna, città in cui frequentava un master in studi di genere.
Da allora l’Eipr non ha pace. Nel novembre 2020, tre dirigenti dell’organizzazione – Gasser Abdel Razek, Karim Ennarah e Mohammed Basheer – erano stati arrestati nel giro di pochi giorni dopo che una delegazione di diversi paesi europei, tra cui l’Italia, aveva fatto visita agli uffici dell’organizzazione. Una prassi molto comune, l’incontro tra società civile e diplomazia europea, ma una consuetudine non gradita affatto dal regime egiziano.
In quei giorni Basheer finì nella stessa cella di Patrick Zaki nel carcere di Tora, confermando un’altra costante di questo paese in cui i detenuti e chi li difende finiscono nello stesso magma di accuse e vicende giudiziarie.
La mobilitazione internazionale
I tre dirigenti, in quella circostanza, furono rilasciati dopo poche settimane grazie a una mobilitazione internazionale che vide in prima linea anche artisti del calibro di Scarlett Johansson. Ma nonostante la fine della detenzione, le indagini non sono state ancora archiviate e al momento nessuno dei tre ha ripreso l’attività che ricopriva prima di finire dietro le sbarre.
Proprio un anno fa Bahgat ha ripreso la direzione dell’organizzazione. Nei mesi successivi, l’Eipr ha perso anche i suoi uffici e ha dovuto trovare una nuova sede perché gli attivisti sono stati sfrattati dal proprietario del fondo dove era situata la sede dell’organizzazione. Al loro posto, come nuovi inquilini, i membri di un movimento politico giovanile vicino al presidente Abdel Fattah al-Sisi.
Alcuni giorni prima della sentenza a carico di Bahgat, 45 organizzazioni non governative avevano firmato un appello che chiedeva la fine della persecuzione contro i difensori dei diritti umani da parte del governo egiziano.
Reati informatici
E questa condanna a una semplice multa potrebbe anche essere interpretata come un’operazione di maquillage, un momento in cui il regime, impegnato nel lancio della nuovo piano sui diritti umani deve mostrare un alleggerimento, almeno apparente, delle pene contro i difensori dei diritti umani. Il processo per il direttore di Eipr era iniziato lo scorso settembre e nell’ultima udienza, lo scorso 2 novembre, la Corte aveva ascoltato l’arringa della difesa e fissato la data della sentenza.
Il pronunciamento dalla terza corte per i reati economici del Cairo è stato emesso anche sulla base della legge contro i crimini informatici. Il testo, approvato nel 2018, restringe la libertà di espressione sul web paragonando qualunque account sui social con più di 5mila follower a una testata giornalistica e dunque esponendolo a tutte le conseguenze legali di un testata online.
Il paradosso del caso Zaki
Nonostante l’impianto legislativo, la decisione del giudice è stata leggera e stride con la situazione di Patrick Zaki, detenuto ormai da 21 mesi e sotto processo dallo scorso settembre per «diffusione di notizie false e di terrore tra la popolazione» sulla base di un articolo scritto nella primavera del 2019 per il portale el-Darraj. La prossima udienza per il giovane ricercatore è prevista per il prossimo 7 dicembre e la situazione giudiziaria resta molto complessa.
I reati per cui il ricercatore è sotto processo, infatti, sono solo una parte del fascicolo che gli investigatori egiziani hanno costruito a suo carico. Oltre all’articolo di Darraj, apparso solo a settembre, ci sono i 10 post di Facebook che avevano costituito le prime prove all’inizio della sua detenzione e che la difesa continua a definire falsi. E sulla base di questi post si potrebbe aprire un nuovo procedimento giudiziario con accuse ben più gravi del processo in corso.
Per questo motivo è molto difficile capire cosa succederà in futuro e nemmeno gli avvocati della difesa sanno cosa aspettarsi. Ciò che è certo è, dopo il rinvio a giudizio in un tribunale per i reati minori, il limite massimo di detenzione cautelare previsto dalla giurisprudenza egiziana è già stato superato. Per il tipo di crimini per cui Zaki è stato portato in tribunale, infatti, il periodo massimo non è più due anni ma 18 mesi. Ma la difesa non è mai riuscita a farlo scarcerare.
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