- Al ballottaggio per le presidenziali del Cile del prossimo 19 dicembre si sfideranno il più nostalgico dei candidati, l’ultraconservatore José Antonio Kast, e il giovane 35enne ex leader delle proteste studentesche Gabriel Boric
- Il primo rimpiange l’iperliberismo della dittatura e vorrebbe tornare a quello spirito, il secondo intende togliere di mezzo tutto ciò che il Cile ancora si trascina di quel periodo, e non è poco.
- Nel frattempo il Cile ha già eletto una Assemblea costituente per spazzare via l’eredità degli anni di Pinochet. Boric vi lavorerebbe in sintonia, con Kast le incompatibilità sarebbero evidenti.
Quando nel 2010 la destra cilena è tornata al potere con Sebastian Piñera dopo vent’anni di dominio incontrastato del centrosinistra, si è detto che finalmente la transizione alla democrazia era compiuta.
Il fantasma di Augusto Pinochet consegnato agli atti delle tragedie del Novecento e il paese finalmente pronto all’alternanza di potere senza traumi.
Sono trascorsi altri undici anni e di quell’analisi non vale più una sola sillaba. L’orologio della storia ha iniziato ad andare all’indietro anche oltre le Ande.
E l’eredità di una delle più sanguinose dittature dell’America Latina è tornata al centro della disputa per il prossimo mandato presidenziale.
Al ballottaggio del 19 dicembre se la vedranno infatti il più nostalgico dei candidati, l’ultraconservatore José Antonio Kast, e il giovane 35enne ex leader delle proteste studentesche, Gabriel Boric.
Il primo rimpiange l’iperliberismo della dittatura e vorrebbe tornare a quello spirito, il secondo intende togliere di mezzo tutto ciò che il Cile ancora si trascina di quel periodo, e non è poco. Pinochet, insomma, è tornato. E sulle sue politiche che ci si confronta di nuovo.
Gli allievi di Friedman
A metà degli anni Settanta, dopo aver fatto uccidere o sparire migliaia di oppositori e eliminato ogni ostacolo, il dittatore dagli occhiali scuri aveva chiamato a sovraintendere le riforme in Cile un gruppo di giovani economisti americani allievi di Milton Friedman, si facevano chiamare i Chicago boys.
Si trattava di privatizzare il possibile, alleggerire lo stato, distruggere i diritti dei lavoratori. Senza opposizione, parlamento e soprattutto sindacati, il Cile è diventato un laboratorio perfetto per applicare teorie fino a quel momento solo accademiche. Il mondo infatti non aveva ancora conosciuto né Margaret Thatcher né Ronald Reagan.
Di tutte le riforme, quella della previdenza è stata la più radicale. Il Cile è diventato il primo paese al mondo a eliminare del tutto le pensioni pubbliche e ha obbligato i lavoratori a passare a fondi privati.
Erano piovuti elogi che erano durati anni. Anche se nessuno, poi, aveva avuto davvero il coraggio di replicarne integralmente il modello.
Oggi sappiamo perché. Quel sistema ha portato la gran parte del pensionati cileni a ricevere assegni da fame.
Problemi simili si sono avuti con le privatizzazioni di sanità e università: queste ultime hanno costretto generazioni di studenti a indebitarsi per la vita per pagare le rette.
Altre riforme strutturali e le aperture commerciali hanno avuto invece effetti in gran parte positivi, e con il ritorno alla democrazia il Cile è diventata un’economia ruggente con i tassi di crescita più alti del continente e una riduzione significativa della povertà.
Anche per questo i successivi governi di centrosinistra non hanno osato smontare il giocattolo. Si è tornati alla democrazia ma lasciando intatta la Costituzione di Pinochet e le sue riforme radicali. Gli squilibri dei sistemi previdenziale, sanitario e scolastico sono stati solo in parte attenuati, ma il grosso è rimasto.
Ritorno al passato
Due anni fa, e per varie settimane, i cileni sono scesi in piazza contro il “modello”. Anche se a usare la mano pesante sono state soprattutto le forze dell’ordine, la destra è riuscita a far passare un altro messaggio: il miracolo cileno si è rotto per colpa dei manifestanti, in gran parte di sinistra.
Il reazionario Kast prende così oggi la leadership della destra, e con parole d’ordine alla Donald Trump (o alla Jair Bolsonaro se preferite), vi aggiunge l’odio per gli immigrati venezuelani e haitiani, i valori perduti della patria e della famiglia, la necessità di tornare allo spirito liberista dell’economia e di ridurre le tasse.
All’estremo opposto del quadro politico, il giovane ex leader degli studenti Gabriel Boric è invece il portavoce di quella rivolta.
Arriva a sostituire il vecchio centrosinistra moderato che mai ha saputo dare risposte piene alle disuguaglianze sociali, e all’assenza dello stato in materia di previdenza, salute e scuola, così come imposto dai militari che l’11 settembre del 1973 avevano bombardato il palazzo della Moneda spingendo al suicidio Salvador Allende.
La rivolta sociale del 2019 ha già partorito una nuova Assemblea chiamata a cambiare la Costituzione dei militari che i cileni hanno votato.
Ovviamente è squilibrata a favore di chi i cambiamenti li vuole, quindi la sinistra, e non di chi approva lo status quo. La Costituente lavorerebbe in sintonia con Boric e in forte divergenza con Kast, questo è sicuro.
Meno di due punti percentuali separano adesso le due visioni del Cile, il piccolo vantaggio che Kast ha preso su Boric al primo turno di domenica scorsa. L’esito non è scontato.
L’economia sarà al centro dei prossimi duelli televisivi e, contrariamente a quello che tutti hanno immaginato dieci anni fa, i fantasmi del Novecento guideranno ancora la mano dei cileni nell’urna.
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