- Apatia e assenza sono le vere protagoniste dell’ultimo voto in Iraq. Quella del 10 ottobre è la quinta elezione parlamentare dalla rimozione di Saddam Hussein nel 2003. L’affluenza ha raggiunto i minimi storici.
- Secondo la commissione elettorale, solo il 43 per cento degli elettori che si sono registrati per votare si sono recati alle urne (dato che non prende in considerazione gli aventi diritto di voto non registrati).
- Ma prima di fare ulteriori analisi sul prossimo governo bisogna aspettare la certificazione dei risultati da parte della Corte suprema e l’annuncio della coalizione, che in un clima di instabilità politica come quello iracheno, non è mai del tutto scontata.
Apatia e assenza sono le vere protagoniste dell’ultimo voto in Iraq. Quella del 10 ottobre è la quinta elezione parlamentare dalla rimozione di Saddam Hussein nel 2003. L’affluenza ha raggiunto i minimi storici: secondo la commissione elettorale, solo il 43 per cento degli elettori che si sono registrati per votare si sono recati alle urne (dato che non prende in considerazione gli aventi diritto di voto non registrati).
Tra le città con la percentuale più bassa figura proprio Baghdad, con un’affluenza che si aggira tra il 31 e il 34 per cento. «Il clima al momento delle elezioni era quello di una grande divisione generazionale», dice Omar al-Jaffal, ricercatore e giornalista iracheno di Al Monitor. «Le statistiche mostrano che gli anziani sono quelli che più si sono recati alle urne, soprattutto a seguito delle fatwa dei chierici che chiedevano loro di votare. I giovani prendevano in giro le elezioni sui social dicendo che i media le ritraevano come un matrimonio!»
I giovani e il movimento
«In Iraq non esiste destra o sinistra, ma solo soldi e potere», dice Imad Zebala, architetto e artista che dall’Iraq è scappato già da tempo e ora promuove progetti culturali in Italia. «In Iraq puoi comprare tutto: una strada, un ministero... Le milizie controllano le strade e chiedono tangenti a chi le percorre. Funziona così anche per tutto il resto. Chiamarle elezioni è un’offesa per la democrazia».
Questo problema sistemico è tra i motivi per cui, tra ottobre 2019 e gennaio 2020, i giovani iracheni del movimento Tishreen (“movimento di ottobre”) riempirono le piazze del paese per chiedere la fine di un sistema politico corrotto dominato da milizie e clientelismo settario. Le forze di sicurezza hanno represso le proteste brutalmente: l’Alto commissariato per i diritti umani in Iraq conta 600 omicidi di ragazzi durante le manifestazioni, e molti altri sono stati vittime di una campagna di omicidi mirati e intimidazioni per dissolvere il movimento.
Boicottaggio ideologico
Così i giovani hanno promosso una campagna di boicottaggio ideologico verso le elezioni: «Durante le proteste abbiamo chiesto la riforma della legge elettorale e un governo transitorio che portasse il paese a delle elezioni democratiche. La riforma della legge elettorale c’è stata, anche se non soddisfacente, ma la campagna elettorale è stata dominata da intimidazioni e uccisioni per indebolirci» dice Batool Kreem Hamdi, attivista del movimento Tishreen.
«Il regime non adotta la cittadinanza come base di riconoscimento dei diritti fondamentali, ma le sub-identità religiose ed etniche degli iracheni. Così i partiti che rivendicano la rappresentanza politica di questo o quell’altro gruppo prendono la propria parte, come quando ci si divide una torta» spiega Ahmed Alaa, anche lui tra i protagonisti delle proteste del 2019 e tra coloro che hanno boicottato queste elezioni.
Dice di aver perso fiducia nella possibilità di riformare il regime dopo le uccisioni: le parti in gioco «pensano solo a spartirsi il potere a livello statale senza alcun riguardo per le persone che soffrono di emarginazione, malattie, mancanza di opportunità di lavoro e altri problemi».
I ragazzi e il voto
C’è anche chi, pur essendo molto critico, ha deciso di andare a votare perché crede nella possibilità di fare politica all’interno delle istituzioni. «Sì, ho votato», dice Wissam Ibrahim Anber, osservatore elettorale e direttore esecutivo dell’organizzazione Ufuq. «Credo nei processi democratici e penso che ci siano delle potenzialità di miglioramento in futuro sui processi elettorali, anche se sono consapevole che l’ambiente politico non sia sano».
Un ragazzo di Baghdad che ha partecipato alle manifestazioni del 2019, che chiede di essere citato anonimamente, si è recato alle urne: «Ho votato per i seggi delle minoranze come gli yezidi e gli assiri perché hanno bisogno di più rappresentanza. Anche se il sistema è corrotto mi sembra di aver fatto la scelta migliore».
Il trionfo dei sadristi
I risultati confermano le previsioni: una vittoria netta dei sadristi, movimento sciita con a capo l’influente studioso Moqtada al-Sadr il quale prende 73 seggi su 329 totali – nel 2018 ne vinse 54. «La vittoria conferma non solo la grande capacità di Moqtada al-Sadr di saper intercettare i voti popolari, ma anche di sapersi porre alla testa di un movimento “populista” che usa retoriche confliggenti – nazionalismo iracheno contro confessionalismo sciita – per conquistare i cuori e le menti dei votanti» dice Giuseppe Dentice, responsabile del Desk Mena al Centro studi internazionali (Cesi).
Per lui, al-Sadr ha «intercettato anche quegli umori regionali in via di trasformazione», cercando di «intessere buone relazioni con i sunniti e le potenze di area di riferimento come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti» in uno scenario politico iracheno in cui l’ingerenza dell’Iran sta creando da diversi anni malcontento tra la popolazione. Questo è uno dei motivi per cui la coalizione di al-Fateh (conquista), un gruppo di milizie sciite alcune delle quali finanziate e controllate da Teheran, ha subìto un’importante sconfitta, conquistando 16 seggi; nel 2018 ne vinse 48.
Già da martedì diversi di questi gruppi pro-Iran hanno dichiarato di non riconoscere il risultato elettorale e di essere disposti a usare la violenza per riaffermare il proprio potere politico.
«Il risultato potrebbe non portare a un gran cambiamento, tuttavia dimostra che le preoccupazioni economiche e il dibattito nazionale possono influenzare l’equilibrio del potere» dice Ali Seyed Alavi, senior teaching fellow alla School of Oriental and African Studies (Soas) dell’Università di Londra.
Scenari futuri
La nuova coalizione non porterà un cambiamento al “sistema Iraq” sopra descritto, ed è difficile prevedere che tipo di alleanza governativa si andrà a formare, soprattutto con i violenti attacchi in corso tra alcune milizie di Fateh e i sadristi. Certamente saremo di fronte a un governo fortemente conservativo: «Muqtada al-Sadr non è un uomo razionale. Possiede una milizia, è reazionario e si oppone alle libertà individuali. Non accetta critiche, e chi lo fa può essere intimidito o addirittura ucciso. Al-Sadr è anche contro la vita moderna, sostiene il divieto della vendita di alcolici ed è contrario all’integrazione dei sessi» dice il giornalista di Al Monitor Omar al-Jaffal.
Ci sono però elementi di novità che nel lungo periodo possono contribuire a mutare gli equilibri politici nel paese: anzitutto, sono state elette 97 donne, un record rispetto alle precedenti elezioni. Inoltre tra i principali partiti indipendenti entrati in parlamento ci sono Imtidad – nato dal movimento Tishreen – e il partito curdo The New Generation, che fa concorrenza già dal 2018 ai partiti tradizionali curdi. Se Imtidad, New Generation, Ishraqat Kanoon, un paio di altri piccoli partiti e una ventina di deputati indipendenti formassero un’alleanza di opposizione, evitando di entrare nel governo o di essere cooptati dai grandi partiti, si potrebbero avere circa 50 deputati al di fuori del sistema delle élite tradizionali» spiega su Twitter Sajad Jiyad, analista iracheno a Baghdad e membro del think tank The Century Foundation.
Ma prima di fare ulteriori analisi sul prossimo governo bisogna aspettare la certificazione dei risultati da parte della Corte suprema e l’annuncio della coalizione, che in un clima di instabilità politica come quello iracheno, non è mai del tutto scontata.
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