Le elezioni presidenziali americane del 2024 sono le prime da quando la Corte Suprema ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade che dal 1973, per quasi mezzo secolo, ha garantito la protezione del diritto all’aborto a livello federale. L’America chiamata al voto è un paese in cui, come diretta conseguenza di quella decisione, quasi un terzo degli stati vieta l’aborto se non in circostanze estreme, o comunque eccezionali.

Questo significa che in diversi stati aiutare una donna ad abortire è un crimine, punibile anche con il carcere. In Texas un medico che si presta a questo tipo di intervento può essere condannato all’ergastolo. Mentre è ormai assodato che piuttosto che diminuire il numero di aborti, la negazione del diritto porta solo ad aborti più rischiosi e a un incremento della mortalità materna.

Ed è anche per questo che negli ultimi due anni negli Stati Uniti l’aborto è stato un tema molto dibattuto o quantomeno capitalizzato a livello politico, anche se non è ancora chiaro che peso avrà in queste elezioni in cui la priorità dell’elettorato anche femminile risulta essere l’inflazione.

Voti incrociati

Nelle elezioni di midterm del 2022, pochi mesi dopo la sentenza della Corte Suprema, la difesa del diritto all’aborto ha fatto la differenza per i democratici, ma è anche stato rilevato che in generale chi vota in quel ciclo elettorale (nel 2022 meno del 50 per cento degli aventi diritto) corrisponde a una fascia di elettori con un grado di istruzione più alto e che attribuisce un peso maggiore a diritti sessuali e riproduttivi, come quello di ottenere un aborto legale e sicuro.

Proprio sulla scia del midterm e delle elezioni straordinarie che si sono tenute negli ultimi due anni, il 5 novembre in dieci stati si vota anche su iniziative che riguardano il diritto all’aborto. In otto casi per espanderlo o affermarlo, come in South Dakota in cui è completamente negato, e per consolidarlo come diritto costituzionale. In quasi tutti questi casi la proposta intende garantire il diritto fino alla soglia del “fetal viability”, ovvero il momento in cui si ritiene che il feto possa sopravvivere fuori dall’utero, corrispondente alle 22-24 settimane.

In uno stato, quello di New York, si vota per una riforma delle leggi anti-discriminazione che andrebbero a proteggere ulteriormente anche il diritto alla terminazione della gravidanza, e in Nebraska si vota su due proposte opposte: una per estendere il diritto all’aborto dopo le 12 settimane, l’altra per far includere il divieto all’aborto dopo il primo trimestre nella Costituzione dello Stato.

La corsa dei singoli stati ad affermare, o negare, il diritto all’aborto rispecchia grandi speranze e paure a livello federale. Speranze e paure che hanno certamente un peso sul voto per la futura o futuro presidente.

Ripensamenti?

Il candidato repubblicano Donald Trump ha strategicamente e progressivamente assunto un atteggiamento meno radicale di quanto avrebbe potuto e di quanto il suo elettorato più conservatore avrebbe voluto. La cosa è emersa chiaramente quando ha commentato la legge molto restrittiva adottata dalla Florida, che vieta l’aborto dopo la sesta settimana, come «una cosa terribile e un terribile errore».

A seguito di un’insurrezione da parte dell’ala più conservatrice del partito, evangelicali inclusi, Trump si è ricreduto dicendo che voterà “no” all’estensione del diritto all’aborto dopo questo limite (Trump, lo ricordiamo, è residente in Florida, quindi è lì che vota). Il suo equilibrismo è stato particolarmente evidente durante l’unico dibattito televisivo con la candidata democratica Kamala Harris.

Dopo essersi più volte autoproclamato il presidente più “pro-vita” della storia americana e di essersi preso il “merito” di aver reso possibile la sentenza che ha eliminato “Roe v Wade”, ha detto che non è vero che metterà la firma su una possibile legge che proibisce l’aborto a livello federale. Non perché non lo voglia fare, questo non lo ha mai detto esplicitamente, ma perché “I won’t have to”, non sarò messo nelle condizioni di doverlo fare. Incalzato dalla moderatrice che gli ha detto che il suo running mate, il candidato vice presidente JD Vance, ha invece affermato che se il Congresso dovesse passare una simile proposta Trump sarebbe pronto a firmarla, ha ribattuto: «Onestamente con Vance non ne abbiamo mai parlato».

606 dichiarazioni

Va inoltre detto che in tempi non sospetti, pre politici, Trump si era invece definito “very pro-choice” e che in generale, dal 2016 a oggi, la sua retorica sull’aborto è cambiata a tal punto da rendere palese la strumentalizzazione politica della questione. Lo dimostra il New York Times, che si è preso la briga di analizzare 660 dichiarazioni di Trump sul tema.

Da quando si è candidato per la prima volta presidente, fino alla sentenza della Corte Suprema che ha annullato Roe v Wade, si è identificato come pro-life, 59 volte, dopo la sentenza solamente sette. In compenso, prima della sentenza ha parlato solo 14 volte delle eccezioni in caso di violenza sessuale o rischi per la salute, questione che invece ha sollevato 86 volte negli ultimi due anni.

Ma soprattutto prima della sentenza ha detto nove volte che sono gli stati a dover legiferare a proposito, dopo lo ha ribadito 103 volte. Il suo messaggio è: non ho vietato l’aborto, ho solo lasciato a voi elettori (uso volutamente solo il maschile) decidere se vietarlo o meno nei vostri territori. L’unica affermazione su cui Trump non si è mosso di una virgola è che i democratici sono dei “radicali”. Questo lo ha ribadito più volte, dicendo, falsamente, che appoggiano l’esecuzione di bambini al nono mese e dopo la nascita.

Le posizioni di Harris

Kamala Harris ha una posizione più chiara e coerente con il suo percorso politico, a differenza del presidente uscente Joe Biden che, da cattolico, soprattutto all’inizio della sua carriera, ha più volte lasciato intendere che la sentenza su Roe v Wade aveva spinto “troppo in là” il diritto all’aborto e che le donne non potevano essere le sole a decidere sul loro corpo.

EPA

La sua posizione è cambiata negli ultimi anni, ma di sicuro su questo tema non aveva la forza politica che ha per Harris. Addirittura nel corso del disastroso dibattito televisivo con Trump che lo ha portato poi a rinunciare alla ricandidatura, non era riuscito a ribattere fermamente all’accusa di appoggiare l’uccisione di bambini già nati.

Harris al contrario già dal suo discorso di accettazione della nomina ha fatto dell’aborto un tema forte della sua campagna, riconquistando l’elettorato femminile, soprattutto quello under 30. Secondo un sondaggio di KFF, una delle principali organizzazioni americane che si occupa di salute pubblica, la nomina di Harris ha portato il 39 per cento in più delle donne democratiche a sentirsi rappresentate dalla persona giusta a queste presidenziali.

E il 65 per ento ritiene che l’esito di queste elezioni avrà un grande impatto sul futuro del diritto all’aborto negli Stati Uniti. Esattamente il contrario di quello che crede l’elettorato femminile repubblicano.

Cambiamenti difficili

Nel corso della sua breve campagna Harris ha sottolineato come l’erosione, in certi casi estrema, del diritto all’aborto negli Stati Uniti sia colpa di Trump, e ha ribadito più volte che le donne devono essere libere di decidere per il proprio corpo. Non dovrebbe essere il governo, sia questo federale o statale, a farlo. Ha inoltre promesso che si opporrà a qualsiasi possibile tentativo di proibire l’aborto a livello federale, e che anzi sarebbe pronta a firmare una legge che riaffermi il diritto garantito per quasi mezzo secolo da Roe v Wade.

Su quest’ultimo punto ha anche detto che si impegnerebbe a facilitare l’inter in Congresso, per far approvare la proposta di legge con una semplice maggioranza. Detto questo, a meno che i Democratici non conquistino la maggioranza in entrambe le camere, è davvero difficile che la futura o il futuro presidente si trovi a dover firmare una legge sull’aborto. Questo è il grande elefante nella stanza di tutta la vicenda: la questione del diritto all’aborto è molto dibattuta ma nel breve periodo non sarà così scontato riuscire a cambiare radicalmente la situazione attuale a livello federale.

Quello che è certo è che una vittoria di Trump sarebbe un duro colpo, anche a livello internazionale, per l’eco innegabile che ha la politica americana. Suonerebbe come un “incoraggiamento”, “un buon esempio” in tutti quegli stati in altre parti del mondo in cui il diritto all’aborto conquistato a fatica viene messo ancora oggi in discussione, Italia inclusa.

© Riproduzione riservata