L’Eni, a settembre 2019, ha dato 35 milioni di euro a una società anglo-lussemburghese, la Blue Power, controllata da Francesco Nettis.

Un imprenditore pugliese, classe 1971, che ha ottenuto la somma grazie a una transazione extragiudiziale con il colosso petrolifero. Come mai Eni ha girato 20 milioni di sterline (più 10 milioni di costi pagabili in tre rate) all’impresario di Acquaviva? Perché l’Eni nel 2011, ai tempi dell’ad Paolo Scaroni, aveva firmato con l’azienda di Nettis un accordo per l’uso di un suo brevetto su un metodo per trasportare il gas naturale.

Qualcosa però era andato storto, e la tecnologia di Nettis non era stata più usata: così la Blue Power aveva fatto causa a Eni a Londra, chiedendo danni per oltre un miliardo di sterline. Nel 2019 la multinazionale, guidata da Claudio Descalzi, ha preferito non affrontare il contenzioso e transare 30 milioni di sterline «in relazione – dice l’Eni – ai rischi legati alla violazione dell’esclusiva».

Vini e soci

La vicenda è rilevante. Non soltanto per la notevole cifra offerta dalla nostra azienda alla sconosciuta società estera. E perché Domani ha scoperto che Nettis, nel 2011, ha investito oltre mezzo milione di euro con cui ha finanziato (per diventare poi socio rilevando il 30 per cento delle quote) la società agricola specializzata in vini di Massimo D’Alema e dei suoi due figli, la “Madeleine” (al tempo D’Alema era tra i leader del Pd e presidente del Copasir, il comitato parlamentare che controlla i servizi segreti).

Ma la faccenda è interessante anche perché la strana storia della Blue Power è finita nei verbali di tre diverse procure della Repubblica: Milano, Potenza e Perugia. A causa delle dichiarazioni inedite di due testimoni: cioè Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che sta testimoniando corruzioni e nefandezze (a volte creduto, molte altre volte no) negli uffici giudiziari di mezza Italia. E Alessandro Casali, un esperto di comunicazione che frequenta D’Alema da anni.

Casali qualche mese fa è stato interrogato dai pm umbri guidati da Raffaele Cantone, dopo che i magistrati hanno ottenuto alcune registrazioni fatte di nascosto a Casali da Amara e Giuseppe Calafiore, sodale di Amara e altro protagonista della vicenda della fantomatica Loggia Ungheria. Tre lunghe conversazioni che Domani ha potuto ascoltare in forma integrale (la Verità tempo fa aveva dato conto di alcuni frammenti) in cui Casali parla della transazione Blue Power da chiudere «a 120-130 milioni», di un incontro avvenuto tra lui, D’Alema e Amara alla sede della Fondazione Italianieuropei per la questione del contenzioso tra Eni e Nettis, e di «10 milioni che ci spartiamo con una consulenza di advisory...c’è spazio per tutti».

Sentito al telefono, D’Alema nega con forza le ricostruzioni dei due testimoni, minaccia denunce e querele («voi non siete giornalisti, raccattate la merda») e definisce l’amico Casali «un cazzaro e un millantatore».

Parole dure forse dovute al fastidio che il suo nome sia di nuovo tirato in ballo a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione, da parte della Verità, di audio in cui l’ex presidente del Consiglio sembra trattare la vendita - poi abortita - di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo alla Colombia. Vicenda su cui sta indagando la procura di Napoli e in cui D’Alema, ad ora, non risulta indagato.

Il giallo dei 10 milioni

LaPresse

Torniamo all’affare Blue Power, partendo dalle dichiarazioni che il 7 luglio 2021 Amara rilascia al procuratore capo di Potenza Francesco Curcio. Alla fine di un lungo interrogatorio sui temi cardine dell’inchiesta per cui era stato arrestato (i rapporti con l’Ilva di Taranto e quelli con l’ex commissario Enrico Laghi, poi incarcerato anche a causa delle parole dell’avvocato), il legale siciliano tira in mezzo Casali, definito «l’intermediario tra me, Calafiore e Massimo D’Alema» in merito «all’operazione Blue Power». Amara – già rinviato a giudizio per calunnia a Milano per aver diffamato Descalzi - spiega a Curcio di aver già parlato della vicenda ai pm della procura di Milano a fine 2019.

Casali, già vicinissimo all’ex ministro Claudio Scajola e organizzatore della Mille Miglia, è titolare di una società di comunicazione ormai fallita, la Meet. Tessitore di relazioni bipartisan e conosciuto nei salotti romani da giudici e professionisti, è grande amico di Luca Palamara, era tra gli invitati alla cena a maggio 2019 in onore del procuratore uscente di Roma Giuseppe Pignatone.

Amara comincia il suo resoconto a Curcio introducendo subito un altro protagonista della storia: Salvatore Carollo, «un uomo di Descalzi», che entrerebbe d’improvviso nelle file dei dirigenti di Blue Power. In effetti – leggendo le carte della camera di commercio di Londra – si scopre che l’allora manager nel 2014 lascia l’Eni per approdare come “director” (consigliere di amministrazione) di una delle società di Nettis, la Blue Mgmt Limited. L’altra spa lussemburghese che partecipa all’affare si chiama Blue Power Group Sarl.

In quel periodo Eni pensa di sviluppare il brevetto della Blue Power (basato sulla compressione del gas al posto della sua liquefazione) per rivoluzionare il trasporto di gas del giacimento di Goliat, nel mare di Barens. In realtà, dice Amara, «la finalità di questi rapporti commerciali (tra Eni e Nettis, ndr) è che a un certo punto Blue Power avrebbe fatto un arbitrato a Londra contro l’Eni, e poi si sarebbe trovata una transazione intorno a cento milioni. In questo modo, i soldi uscivano dall’Eni».

Quando il procuratore capo Curcio gli domanda la ratio dell’operazione, Amara risponde: «Perché dietro Blue Power c’era un imprenditore, mi pare si chiami Ledis (Nettis, ndr), e un certo Roberto De Santis (un imprenditore pugliese anche lui vicinissimo a D’Alema, ndr), che gestiva insieme a Descalzi questa operazione; e perché c’era l’interesse di D’Alema».

Secondo Amara, però, dentro Eni qualcuno si opponeva all’accordo con Nettis: cioè Antonio Vella, allora numero due del Cane a sei zampe. «Vella mi dice: “Io non lo farò mai questo. Lo faccio solo con una disposizione formale, sennò saranno loro stessi (i manager di Eni, ndr) a farmi un’azione di responsabilità per milioni di euro».

Amara spiega di essere stato chiamato da Casali e D’Alema proprio per cercare di ammorbidire Vella, con cui aveva al tempo «un ottimo rapporto...Io così fui convocato, tramite questo Casali, alla fondazione Italianieuropei, ed incontro Massimo D’Alema, persona che stimo in modo straordinario, che mi dice: “A me non frega niente di questa operazione, però siccome se chiama l’Eni io metto pace, secondo me convinco l’imprenditore a chiudere anche a settanta milioni, però lei deve intervenire su Vella». Al procuratore Curcio l’allora avvocato esterno dell’Eni aggiunge: «Io la volevo fare a tutti i costi l’operazione, perché avrei guadagnato».

Al netto dei 10 milioni di cui parla Casali, Amara già due anni prima ai pm di Milano aveva detto che se il lavoro di lobby avesse avuto successo, la quota per i mediatori sarebbe stata pari al dieci per cento di quanto avrebbe incassato Blue Power da Eni. Nell’interrogatorio segreto davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari, di cui finora non si conosceva nemmeno l’esistenza, Amara data l’incontro alla fondazione Italianieuropei a metà del 2017 e aggiunge che D’Alema gli avrebbe detto come «nell’interesse dell’Eni, quindi nell’interesse nazionale, era opportuno assecondare la richiesta di Nettis», al tempo socio in affari della sua famiglia.

«Mi disse pure che una buona soluzione poteva essere corrispondere a Nettis il 20-30 per cento di quanto da lui richiesto. Si trattava comunque di importi molto rilevanti, intorno ai 130 milioni di euro, se non di più... Successivamente ho parlato con Casali dei dettagli dell’operazione, e questi mi disse che, andata a buon fine, il 10 per cento sarebbe spettato a noi mediatori, cioè io, Calafiore, Casali e Carollo. Una parte della somma sarebbe andata a D’Alema, direttamente per la campagna elettorale di Leu, che non mi ricordo se era già stato costituito».

Le speranze di Amara si infrangono pochi mesi dopo, quando i pm della procura di Roma lo arrestano per corruzione in atti giudiziari. «A un certo punto veniamo arrestati» dice Amara a Curcio «Ma dopo l’arresto, cerco di nuovo questo Casali, che stavolta abbiamo registrato, che è una miniera...».

Registrazioni

Dunque, Amara confessa di essere stato protagonista della tentata mediazione tra Eni e Blue Power. Lo fa nel 2019 davanti ai pm di Milano, e a luglio 2021 a Potenza. Nel mezzo, però, si trasforma in una sorta di agente provocatore, decidendo di procurarsi riscontri a quanto detto ai magistrati milanesi.

Lui e Calafiore incontrano almeno tre volte Casali muniti di registratore nascosto, fingendo di essere ancora interessati alla mediazione Blue Power (Casali non sa che la transazione è già avvenuta qualche mese prima), e lo imboccano facendogli raccontare quello che era accaduto nel 2017. Obiettivo: avere una testimonianza “genuina” sull’affare Blue Power e sul presunto intervento di D’Alema e convincere i pm che non stanno raccontando fandonie.

Le registrazioni sono state acquisite dalla procura di Perugia, che le ha passate a quelle di Milano, che dovrebbe avere competenza sulla materia. Domani ne può riferire il contenuto: Casali registrato conferma di fatto di avere organizzato l’incontro tra Amara e D’Alema, ammette di aver detto a Calafiore che «tre milioni» dovevano essere messi da parte per il partito Liberi e Uguali, e ricorda pure come D’Alema, nonostante Amara fosse stato arrestato pochi mesi dopo il loro incontro, non l’aveva redarguito per averli portati da lui. «Pensa, mi ha detto: “Mi dispiace per quegli amici”. Questo per dirti come è lui. Poteva dirmi: “Oh, tu ti devi stare attento a chi mi porti”, poteva benissimo...Ma non l’ha detto», dice Casali a Calafiore nel 2020.

Quando Calafiore gli ricorda come «in questo 10 per cento doveva esserci una parte che stabilivi tu che andava a LeU», Casali replica: «Una parte a me e una parte a te...c’è spazio per tutti. Adesso dobbiamo capire pure come mandarli questi soldi...ti dico che il proprietario della Blue Power, se chiude a 120, noi poi andiamo da lui, gli diciamo: “Amico, 10 (milioni, ndr) adesso firmi un contratto con una società di advisor blindata e seria”». Quando Calafiore chiede se parlerà con D’Alema, Casali dice: «Certo. A me Piero (Amara, ndr) mi aveva detto: “Ale, vediamo extra omnes per noi due, per noi tre, di chiudere a 130-140”».

Casali è stato già sentito a Perugia mesi fa: il suo interrogatorio, secretato, è stato inviato a Milano. D’Alema confuta qualsiasi coinvolgimento (dice solo di conoscere la questione Eni-Blue Power, «perché i Nettis sono amici di famiglia») e nega incontri con Amara, né presso la fondazione né in altri luoghi. Il suo amico Casali, al telefono, però dice: «Non ho lavorato alla transazione tra Eni e Blue Power, ma per essere onesto questo nome l’ho sentito da Amara e Calafiore. Sapevo che era una società che stava in difficoltà, ma nelle registrazioni che lei mi dice parlai a vanvera, non avevo contezza di cosa stavo dicendo. Certo, io ho un rapporto di stima e di conoscenza di tantissimi anni con il presidente D’Alema, ma l’incontro in fondazione lo organizzai perché loro volevano a tutti i costi incontrarlo. Ma si parlò, mi creda, di tutto. Della geopolitica, di mille argomenti. Ma di quello lì, (la transazione tra Eni e Blue Power, ndr), non se ne parlò mai».

Siamo di fronte a un bivio della storia: o l’incontro c’è stato, e dunque D’Alema mente. Oppure Casali calunnia per motivi ignoti l’ex presidente del Copasir, suo caro amico.

Dovrebbe essere la magistratura a stabilire chi dice la verità, ma non è chiaro che riscontri siano stati effettuati in due anni e mezzo dalla procura di Milano, per capire se D’Alema sia stato diffamato (e dunque Amara rischia una nuova accusa per calunnia) per intere pagine di verbale o se, al contrario il legale e Casali dicono la verità. Per la cronaca da pochi giorni sotto la Madonnina è arrivato un nuovo procuratore capo, Marcello Viola, che ha preso il posto di Francesco Greco, nel frattempo diventato consulente anticorruzione del sindaco di Roma, il piddino Roberto Gualtieri.

Il brevetto

È assai probabile che Amara e Casali non abbiano incassato una lira della loro tentata mediazione. Nettis ed Eni si sono infatti accordati a fine 2019 per chiudere il contenzioso legale, a una cifra ben inferiore rispetto agli 80-100 milioni prospettati negli interrogatori e nelle registrazioni. Ma come mai Eni ha scelto di pagare a Blue Power una somma comunque altissima? Quali rischi economici o reputazionali nascondeva la lite?

L’Eni dice che «l’utilizzo della tecnologia di compressione della Blue Power venne rifiutata, per motivi tecnici, dall’operatore norvegese», cioè il colosso nazionale di Oslo socio di minoranza in Goliat. È a quel punto che Nettis avvia un contenzioso contro le società norvegesi del gruppo Eni affermando, dicono dall’azienda, «che Eni avrebbe inteso appropriarsi dei segreti commerciali dei brevetti di Blue Power e accusando la società di cattiva fede nella trattativa con Statoil. Blue Power ha altresì eccepito la violazione dell’esclusiva», che assegnava da contratto del 2011 «i lavori di ricerca e sviluppo alla stessa Blue Power», e invece commissionati da Eni «a soggetti terzi».

Carollo, che ha lavorato con Nettis per quasi due anni, dice: «Ritenevo che la tecnologia fosse interessante, ma poi ho visto che non c’era determinazione di fare investimenti necessari ad avviarla. Dopo il no di Statoil, il progetto si è fermato... A quel punto Eni e Blue Power hanno preso in considerazione di usare lo stesso brevetto su altre piattaforme in giro per il mondo: certamente l’azienda di Nettis aveva un rapporto di clientela privilegiato, era un contrattista a cui teneva molto». Sull’invenzione di Blue Power è più netto Casali, che in una registrazione rubata da Amara dice: «Si tratta di un brevetto che è una supercazzola, tipo la camicia double face».

Abbiamo provato a contattare Nettis attraverso D’Alema, ma ha preferito non commentare. L’Eni ricorda che inizialmente Nettis chiese un miliardo di sterline di danni, e che la causa fu ridotta successivamente per via delle contestazioni di Eni a 330 milioni di sterline. «Non è mai esistita trattativa sull’importo di 130 milioni di sterline», concludono, mentre i 30 milioni sono stati riconosciuti a Nettis «in relazione ai rischi legati alla violazione dell’esclusiva». Secondo D’Alema si tratta di «una manciata di soldi, povero Nettis. L’Eni gli ha tirato una fregatura micidiale, non ha nemmeno potuto pagare gli avvocati inglesi».

 

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