- Il presidente turco continua a mediare tra Mosca e Kiev per la fine della guerra, ma intanto attacca il nord e il nord-est della Siria per espandere la sua influenza nel paese mediorientale.
- In attesa di una nuova invasione, la Turchia compie omicidi mirati di esponenti politici e militari di spicco del Rojava, minando le operazioni anti-terrorismo della Coalizione a guida Usa e avvantaggiando la Russia.
- Per Ankara gli equilibri di potere tra gli attori presenti in Siria sono rilevanti anche per l’esito delle prossime elezioni politiche e per la tenuta dell’economia. L’annuncio di una riconciliazione con Damasco però avrà difficilmente seguito.
Mentre in Ucraina il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si impegna per portare avanti i colloqui di pace tra le parti in guerra, sul fronte siriano la situazione si fa sempre più tesa. Nel silenzio della comunità internazionale e degli Usa, presenti nel paese mediorientale ma sempre meno disposti ad inimicarsi la Turchia, attore percepito ormai come fondamentale per la risoluzione del conflitto ucraino. Grazie al ruolo assunto con lo scoppio della guerra, il presidente Recep Tayyip Erdogan può contare su maggiori margini di manovra nel portare avanti le proprie politiche in Siria, territorio sempre più importante nel determinare l’esito delle elezioni nel paese anatolico. Il tutto a discapito delle forze curdo-arabe alleato degli Usa nella lotta all’Isis e a vantaggio invece tanto delle cellule jihadiste ancora attive nel paese quanto del regime di Damasco e del suo principale alleato, la Russia.
Attacchi mirati
Obiettivo ultimo del presidente Erdogan è da tempo quello di estendere la fascia di territorio del nord e nord-est della Siria sotto il proprio controllo (diretto ed indiretto), così da creare una zona cuscinetto tra la Turchia e l’Amministrazione autonoma del Rojava, identificata fin dalla sua nascita come una minaccia alla sicurezza dello stato turco.
Questa espansione territoriale dovrebbe inoltre permettere a Erdogan di rimpatriare “volontariamente” almeno un milione di profughi siriani, rispondendo in questo modo alle richieste della popolazione turca – sempre meno tollerante nei confronti dei rifugiati – e portando avanti un’operazione di ingegneria demografica che consentirebbe alla Turchia di rafforzare la presa sul nord della Siria.
Da qui la minaccia di una nuova operazione militare contro le milizie curdo-arabe, arrivata non a caso in piena campagna elettorale ma costantemente rimandata a causa dell’opposizione di Russia e Iran. Il presidente turco negli ultimi mesi ha cercato di ottenere il via libera di Mosca e Teheran, sfruttando a suo favore i vantaggi derivanti dalla guerra in Ucraina, ma le sue richieste sono rimaste inascoltate.
Ciò però non vuol dire che Erdogan sia rimasto a guardare. In attesa di una nuova operazione, Ankara sta portando avanti una serie di omicidi mirati ai danni di esponenti militari e politici di spicco dell’Amministrazione autonoma, a discapito non solo della rivoluzione siriana ma anche della sicurezza regionale.
L’uccisione di personaggi come Salwa Yusuf, comandante delle Unità anti terrorismo (Yat), ha inflitto un duro colpo anche alle operazioni di contrasto al terrorismo portate avanti dalle forze curdo-arabe con la collaborazione degli Stati Uniti, favorendo quindi le cellule dello Stato islamico ancora attive nel paese. Ugualmente destabilizzanti sono gli attacchi compiuti negli ultimi giorni dalla Turchia contro Kobane, simbolo della resistenza all’Isis, Shehba, Ayn Issa e Tel Tamir, tutte città situate nel nord e nord-est della Siria e su cui la Turchia vorrebbe estendere il proprio controllo.
Nuovi equilibri
L’aggressività della Turchia contro i curdi, alleati degli Stati Uniti e impegnati tutt’oggi nella lotta all’Isis, continua però ad essere ignorata dalla comunità internazionale. I pochi commenti giunti da Washington o dal Comando centrale delle forze Usa sono stati vaghi e non sono serviti a fermare gli attacchi turchi.
Per tutta risposta, le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno sospeso le operazioni anti terrorismo condotte sotto l’egida della Coalizione internazionale, nella speranza di ottenere maggiore sostegno da parte degli Stati Uniti.
Per gli Usa però il mantenimento di buone relazioni con la Turchia è al momento prioritario: senza Ankara, le parti coinvolte nella guerra in Ucraina non potrebbero parlarsi, data la rottura diplomatica con Mosca decisa dal fronte occidentale, pertanto gli Usa non possono permettersi di inimicarsi il governo turco.
L’avvicinamento sempre maggiore della Turchia alla Russia però inizia a preoccupare gli Usa e sta avendo degli effetti anche nello scenario siriano. A metà agosto il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha rivelato di essersi incontrato ad ottobre con l’omologo siriano, Faisal Mekdad, e ha auspicato una riconciliazione tra il governo siriano e l'opposizione filo turca.
Un segnale importante se si considera che Ankara aveva interrotto ogni relazione con Damasco con lo scoppio della guerra civile, ma che difficilmente si tradurrà in una normalizzazione dei rapporti nel breve periodo. Nel mentre però Erdogan ha anche cambiato posizione sulla presenza americana in Siria, chiedendo apertamente il ritiro dei soldati Usa in occasione dell’incontro con Putin e con il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran.
Anche prima di queste dichiarazioni le politiche turche in Siria andavano in realtà contro gli interessi americani nel paese. Gli attacchi condotti contro il Rojava e la minaccia di una nuova invasione, a cui gli Usa hanno risposto con il silenzio, fanno infatti il gioco della Russia, che ne approfitta per attrarre a sé le forze curde. Le Sdf stanno infatti ricalibrando i rapporti con Mosca e Damasco a livello quantomeno tattico in previsione di una operazione turca, senza però arrivare ad una vera e propria alleanza con due attori che potrebbero in qualsiasi momento sacrificare i curdi per i propri interessi.
Le elezioni in Turchia
Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, gli equilibri in Siria saranno sempre più importanti per Erdogan. Tanto la presenza dei profughi siriani in Turchia quanto i costi derivanti dal mantenimento delle truppe turche in Siria (due miliardi l’anno) sono temi cari agli elettori e a cui il presidente deve dare una risposta per non alienarsi parte dell’elettorato.
Ma il tipo di postura che Ankara avrà nei confronti del regime di Damasco è importante anche per la tenuta dell’economia turca, in crisi a causa delle politiche decise da Erdogan.
Il presidente si è rivolto alle monarchie del Golfo per rimpinguare le casse del paese, ripristinando i rapporti con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno a loro volta cambiato posizione nei confronti di Damasco, inizialmente proprio in chiave anti turca, e potrebbero adesso spingere Ankara verso il regime di Assad.
A fare pressioni poi è stessa la Russia, intenta ad immettere denaro in Turchia ed interessata a una riconciliazione tra Ankara e Damasco. Ciò che succede in Siria è ancora una volta rilevante per il futuro della Turchia, ma questa volta Erdogan gioca da una posizione di forza insperata grazie alla guerra in Ucraina.
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