- Alcune agenzie di sondaggio ne hanno rilevato la rapida ascesa nelle preferenze degli elettori per Éric Zemmour, facendolo salire dall’iniziale 5 per cento ad un 17-18 per cento che lo collocherebbe al secondo posto dietro a Emmanuel Macron.
- Come si può definire l’intruso nelle prossime elezioni presidenziali francesi? Lo si deve dipingere come un conservatore o come un estremista di destra? Oppure un sovranista? Un populista? Addirittura un fascista?
- Intanto Zemmour ne approfitta per un tour di presentazione del suo libro: incontri con 1.500 spettatori paganti, con posti da 30 a 70 euro l’uno.
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Hard-right political talk-show star Eric Zemmour gestures as he talks during a meeting to promote his latest book "La France n'a pas dit son dernier mot" (France has not yet said its last word) in Versailles, west of Paris, Tuesday, Oct. 19, 2021.Provocative anti-immigration commentator Eric Zemmour is drawing national attention in France as he floats a possible presidential bid that could shake up the campaign for the April election. (AP Photo/Michel Euler)
Un destino da guastafeste. Si potrebbe sintetizzare così l’accidentato e per ceti versi sorprendente percorso che ha portato Éric Zemmour dall’infanzia nella banlieue parigina, vissuta da figlio di ebrei berberi immigrati in Francia nel 1952, sei anni prima della sua nascita, a un duplice ruolo di protagonista del dibattito pubblico francese, prima e a lungo come giornalista-opinionista e oggi in qualità di candidato in pectore alla presidenza della Repubblica.
Un outsider che alcuni osservatori vedono come un ciclone destinato a sconvolgere il sistema politico transalpino, destabilizzandone gli equilibri e altri considerano un semplice acquazzone stagionale, ma che comunque tutti seguono da vari mesi con un interesse febbrile, e in molti casi con evidente apprensione.
L’incubo dei liberal
Da quando alcune agenzie di sondaggio ne hanno rilevato la rapida ascesa nelle preferenze degli elettori, facendolo salire dall’iniziale 5 per cento ad un 17-18 per cento che lo collocherebbe al secondo posto dietro a Emmanuel Macron e gli consentirebbe di indossare i panni dello sfidante del capo di Stato sfilandoli a Marine Le Pen (che lo tallona, secondo le inchieste di opinione più recenti, ad un punto percentuale di distanza), il fenomeno-Zemmour ha valicato i confini trasformandosi in un tema di dibattito un po’ in tutta Europa e persino oltre oceano.
I giornali e i siti web abbondano ormai di ricostruzioni della sua carriera che spesso nascondono un debito con le molte pagine dedicategli da Wikipedia, e gli inviati dei networks radiofonici e televisivi vengono messi alla frusta per scovare qualche inedito, o perlomeno poco noto, particolare biografico dell’ennesimo protagonista inatteso prodotto da questa epoca di aperta crisi dei “grandi racconti” che per più di mezzo secolo avevano congelato le dinamiche elettorali delle democrazie occidentali, legandole a doppio filo alle capacità di identificazione delle tradizionali famiglie di partito.
Nel frattempo, affilano le armi anche gli intellettuali progressisti – Bernard-Henri Lévy in testa, come d’abitudine – chiamati o autoconvocati a combattere la nuova minaccia all’egemonia culturale della political correctness, e il quesito che serpeggia nei loro primi interventi è: come si può definire l’intruso? Lo si deve dipingere come un conservatore o come un estremista di destra? Oppure un sovranista? Un populista? Addirittura un fascista?
Le proposte si accumulano, mentre l’interessato continua a tenere sul filo – peraltro sempre più tenue – del dubbio simpatizzanti e detrattori: formalizzerà la candidatura all’Eliseo o, alla fine, eviterà di fare il grande passo e si accontenterà del polverone suscitato per dare ulteriore lustro alla sua?
Come Beppe Grillo
Al di là dell’ostacolo costituito dalla necessità di raccogliere cinquecento parrainages – la formale dichiarazione di avallo alla candidatura – fra sindaci, consiglieri regionali ed altri rappresentanti eletti a cariche istituzionali di rilievo –, la futuribile partecipazione alle presidenziali del prossimo aprile sta già comunque fruttando a Zemmour notevoli vantaggi.
Il giro di presentazioni pubbliche del suo ultimo libro, pensato fin dal titolo (La France n’a pas dit son dernier mot) come un manifesto politico autopromozionale, oltre a riscuotere un grande successo di presenze – a volte, come nell’incontro al palazzo dei congressi di Versailles di alcuni giorni fa, accompagnato da introiti considerevoli: 1.500 spettatori paganti, con posti da 30 a 70 euro l’uno – gli sta offrendo una cassa di risonanza mediatica gratuita e costante.
Un po’ come il Beppe Grillo dello tsunami tour del 2013, in ogni sua apparizione nel corso di un periplo che va toccando una dopo l’altra tutte le regioni del paese, a volte in più località nella stessa tappa, il polemista sciorina il suo campionario di idee acuminate incantando i fan, incrementa le vendite del volume, giunto in meno di un mese a una diffusione di oltre 180.000 copie (equivalenti a un milione e trecentomila euro di diritti d’autore: un discreto “bottino di guerra” utile a far fronte alle ipotetiche spese di campagna elettorale), e attira su di sé i riflettori di quel circo mediatico a cui peraltro riserva incessanti accuse di faziosità e manipolazione ai suoi danni.
A tal punto da essersi ormai accaparrato il centro della scena nelle cronache dell’attualità politica, compensando con i relativi interessi la perdita temporanea di quel pubblico del piccolo schermo che aveva portato lo share dei programmi di cui era animatore o ospite fisso a cifre impensabili, e che una decisione dell’autorità statale di regolamentazione dei mezzi audiovisivi gli ha sottratto, obbligando i canali radio-televisivi a conteggiare il suo tempo di parola come se già fosse uno degli esponenti politici candidati alle presidenziali.
Niente tv, ma tutto il resto sì
Pur essendo scomparso per effetto di quella delibera dai palinsesti di CNews, la rete d’informazione continua voluta e finanziata dal patron di Vivendi, il finanziere miliardario, conservatore e cattolico tradizionalista Vincent Bolloré, Zemmour continua infatti a fare la sua diretta comparsa sulle pagine dei quotidiani e nei telegiornali grazie alle polemiche suscitate dalle sue prese di posizione e, adesso, anche da alcuni suoi atteggiamenti visibilmente ispirati a una logica di marketing politico e destinati a suscitare clamore.
Come quando, pochi giorni fa, durante la visita ad un salone dedicato alla sicurezza interna e internazionale, ha imbracciato un fucile d’assalto, lo ha puntato verso i giornalisti che lo attorniavano e, con una risata, ha intimato loro di indietreggiare. Anche senza bisogno di questi coups de théâtre, comunque, la sua presenza ha iniziato ad aleggiare in molti talk show, dove gli invitati sempre più frequentemente si sentono chiedere cosa pensano di questa o quella sua opinione. E talvolta, come è accaduto al ministro dell’economia Bruno Le Maire in una trasmissione dell’importante emittente Europe 1 di fronte all’anchorwoman Sonia Mabrouk, che pure è musulmana e immigrata dalla Tunisia, si vedono rinfacciare di «non voler vedere la realtà» quando glissano sui problemi che l’immigrazione di massa sta comportando nelle scuole, nei “quartieri sensibili” e in taluni settori produttivi.
Altro che antisistema
Chi non è avvezzo alla frequentazione delle vicende politiche d’oltralpe potrebbe sbalordirsi al cospetto di una così apparentemente irresistibile ascesa. Ma basta dare una sintetica occhiata alle vicende che hanno segnato il percorso di questo ennesimo aspirante al ruolo di capopopolo per rendersi conto che molti indizi potevano lasciar presagire questa nuova fase della sua esistenza pubblica.
La passione per la politica si è infatti manifestata presto in Éric Zemmour e non ha mai dato segni di attenuarsi. Dopo gli studi a SciencesPo e il fallimento dei tentativi di entrare all’ENA, la fucina dei quadri dirigenti dell’amministrazione francese, la sua carriera giornalistica si è dipanata nel segno di un coinvolgimento sempre più intenso nel dibattito politico.
Sulle colonne degli organi di stampa della destra post-gollista – Quotidien de Paris, Figaro, Valeurs actuelles – editoriali e commenti lo hanno progressivamente reso familiare ad una fascia di lettori che gli ha confermato il proprio interesse quando la sua attività si è estesa ai canali audiovisivi.
Inizialmente ristretto agli scenari politici dell’attualità, il suo sguardo ha cominciato ad estendersi a tematiche di più vasta portata sociale agli inizi del nuovo secolo, e in parallelo i toni dei suoi interventi si sono fatti più aspri, fino a guadagnargli una reputazione di polemista combattivo e a tratti intemperante.
Sulla scia di questa notorietà, la sua presenza mediatica si è fatta ancora più ampia, permettendogli di assumere le vesti di portavoce di un settore di opinione pubblica di sentimenti conservatori che si sentiva sottorappresentato nei dibattiti televisivi e sulle pagine dei quotidiani e dei settimanali. Ed è puntando su questa base di sostegno che Zemmour ha fatto della sistematica avversione a tutti i capisaldi del politicamente corretto il proprio cavallo di battaglia.
Contro islam, femminismo e multiculturalismo
La sua linea di pensiero è andata parallelamente precisandosi nei libri che ha pubblicato negli ultimi quindici anni. Nel 2006, ne Le premier sexe (tradotto in italiano con il titolo Sii sottomesso da Piemme, con l’eloquente occhiello in copertina La virilità perduta ci consegna all’islam), ha preso di petto il femminismo e la «femminilizzazione della società», intesa come cedimento ad una visione ludica e consumistica dell’esistenza, volta alla «fabbricazione di un uomo senza radici né razza, senza frontiere né paesi, senza sesso né identità», gettando le basi della successiva crociata contro la multietnicità e il multiculturalismo.
Dal 2010 in poi, partendo da Mélancolie française, si è concentrato su una rivisitazione della storia della Francia che ha come obiettivo l’invenzione di un nuovo «romanzo nazionale», in grado di restituire un’identità ad un paese che l’ha vista progressivamente svanire insieme ai suoi originari fondamenti etnici di nazione «gallo-romana».
Ne Le suicide français ha puntato il dito contro gli effetti disgreganti che il diffondersi dei principi scaturiti dalla contestazione del Sessantotto ha avuto sull’autorità e la credibilità dello Stato.
In Destin français, attingendo all’autobiografia, ha tessuto le lodi dell’assimilazione culturale come unica ricetta per attenuare l’impatto dell’immigrazione, criticato l’universalismo che avrebbe ridotto il messaggio cristiano a incondizionata accettazione di ogni Altro e denunciato la crescente influenza dell’islam nella società francese. E in La France n’a pas dit son dernier mot ha chiamato alla riscossa quanti non intendono piegarsi ad un orizzonte di decadenza.
Ognuno di questi volumi si è tramutato in un successo editoriale straordinario, giunto ad oltrepassare i 300.000 esemplari venduti.
Sempre più estremo
Facendosi forte di questa audience, Zemmour ha giocato al rialzo nei toni polemici, attirandosi le ire delle associazioni antirazziste e i processi, alcuni dei quali terminati con una condanna per provocazione alla discriminazione razziale, come quando ha sostenuto che la maggior parte dei trafficanti di droga sono neri o arabi. Le continue provocazioni – la difesa di Bashar el-Assad, difeso dall’accusa di aver gassato il suo popolo; la negazione del diritto di adozione degli omosessuali; la convinzione che il maresciallo Pétain abbia salvato il 95 per cento degli ebrei francesi sacrificando quelli stranieri; la riabilitazione della colonizzazione dell’Algeria; la sottoscrizione della tesi di Renaud Camus sul grand remplacement, la graduale sostituzione della popolazione autoctona, e così via – gli sono valse sospensioni e annullamenti di contratti con giornali, reti televisive ed emittenti radiofoniche.
Ma ogni volta la sua popolarità gli ha consentito di trovare nuove vie per esprimersi e mantenere il contatto con la platea degli ammiratori, che nel marzo di quest’anno è arrivata a far triplicare le quote di ascolto di CNews, facendola diventare la prima rete informativa nazionale.
Avanzando proposte come il blocco totale dell’immigrazione, l’espulsione dei residenti clandestini, la soppressione dello jus soli, la fine del diritto di riunificazione delle famiglie immigrate, il diritto di precedenza dei nativi nelle prestazioni sociali, Zemmour ha evidentemente dato una spinta a quella «liberazione dai complessi» di una “destra profonda” che Sarkozy, ritenendola maggioritaria nella società francese, aveva predicato durante la campagna elettorale che lo avrebbe portato alla presidenza, ma poi abbandonato a profitto di uno stile più ragionevole e moderato. Ed è proprio questa moderazione, interpretata come una rinuncia alla difesa delle proprie idee, che il polemista prestato – o forse semplicemente approdato – all’azione politica ha posto sotto accusa.
Senza spendersi troppo nelle lamentazioni sul “tradimento” della destra dei Républicains, ha rispolverato, radicalizzandoli, i programmi del Rpr di Chirac di trent’anni fa e si è presentato come l’uomo che è disposto a metterli finalmente in pratica.
La destrizzazione della Francia
Sapendo che il suo profilo religioso ed etnico lo mette al riparo da quelle accuse di inconfessate nostalgie per il Terzo Reich che avevano azzoppato Jean-Marie Le Pen soprattutto dopo la frase sullo sterminio degli ebrei «dettaglio della storia della seconda guerra mondiale», Zemmour si è spinto ben oltre le posizioni del Rassemblement national nella sua battaglia contro immigrazione e multiculturalismo (arrivando a sostenere che l’anagrafe dovrebbe ritornare ad ammettere soltanto nomi presenti nel calendario dei santi, cancellando quelli che rimandano a radici estranee alla storia della «Francia cattolica»).
E ha proseguito imperterrito nelle sue diatribe malgrado denunce e processi, contestando ai giudici, che pure lo hanno assolto in varie occasioni, un atteggiamento persecutorio e proclamandosi «non un delinquente ma un dissidente» a cui si vuole negare la libera espressione delle opinioni. Convinzione che lo ha portato a fare appello contro una delle condanne subite presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il consenso che al momento pare arridergli è un altro indicatore di quella «destrizzazione» della pubblica opinione francese che il politologo Dominique Reynié ha di recente documentato sulla base di un’ampia analisi svolta dalla sua Fondation pour l’innovation politique, think tank che si definisce liberale e progressista.
Senza l’imbarazzante storia familiare che tuttora affligge Marine Le Pen, Zemmour punta a fondere una parte dell’elettorato frontista ed una della destra “rispettabile”, a cui indirizza i suoi frequenti elogi del generale de Gaulle (ma anche di Napoleone e degli altri grandi della storia di Francia).
Qualora questa convergenza si realizzasse e lo portasse al secondo turno, il suo potenziale di voti potrebbe salire almeno al 40 per cento. E la crescente idiosincrasia di molti elettori della sinistra verso Macron potrebbe riversarsi sull’astensione, rendendo il duello finale più incerto di quanto oggi non appaia. Il progetto non è però privo di punti deboli.
Sebbene il candidato non dichiarato sostenga di voler unire dietro di sé due versanti opposti della protesta anti-establishment, i cattolici della Manif pour tous e il variegato aggregato dei Gilets jaunes, sul secondo di questi versanti la sua presa appare meno solida.
Come di recente ha fatto notare un analista che conosce bene quegli ambienti, il fondatore della Nouvelle droite Alain de Benoist, «Zemmour guarda alla piccola borghesia attratta dalle sue posizioni, più radicali sui temi dell’identità culturale francese e dell’immigrazione, mentre sotto il profilo economico esprime idee molto più liberali di Marine Le Pen. Non credo che potrà sfondare tra le classi popolari».
Comunque vadano le cose, Zemmour un effetto sul sistema politico francese lo ha già ottenuto: ha costretto le altre forze politiche ad accettare un dibattito di fondo sugli argomenti che più gli stanno a cuore – immigrazione e ruolo dell’islam nella società multietnica – e posto a Marine Le Pen una netta alternativa: riabbracciare il progetto populista nella sua integralità, valicando il confine tra sinistra e destra, o rassegnarsi ad essere una componente minoritaria di quest’ultimo campo.
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