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Il prossimo 4 agosto sarà trascorso un anno dall’esplosione del magazzino del porto di Beirut in cui erano stoccate, senza adeguate misure di sicurezza, più di 2.500 tonnellate di nitrato di ammonio.
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La vicenda del porto di Beirut rappresenta in tutta la sua drammaticità l’implosione dello stato libanese.
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Un’implosione le cui cause vanno ricercate sia nella fragilità istituzionale e nei limiti del sistema politico che attribuisce le cariche su base confessionale, assegnando così ai cristiani maroniti il presidente, ai sunniti il premier e agli sciiti il presidente del parlamento, sia nelle contrapposizioni regionali tra Israele e Monarchie del Golfo da una parte e Iran dall’altra.
Il prossimo 4 agosto sarà trascorso un anno dall’esplosione del magazzino del porto di Beirut in cui erano stoccate, senza adeguate misure di sicurezza, più di 2.500 tonnellate di nitrato di ammonio. L’esplosione, una delle più potenti non nucleari della storia, secondo uno studio dell’università di Sheffield, ha causato la morte di più di 200 persone, ha distrutto e danneggiato l’intera area del porto e i quartieri limitrofi e ha lasciato molte domande senza risposte.
La scorsa settimana, i familiari delle vittime hanno manifestato per le vie di Beirut per chiedere la rimozione dell’immunità all’ex premier Hassan Diab, a tre ex ministri e all’ex capo dei servizi di sicurezza libanesi, il generale Abbas Ibrahim, per poter esser interrogati dal giudice istruttore della Procura di Beirut, Tarek Bitar, e per poterli perseguire per la loro inadempienza.
La vicenda del porto di Beirut, con i suoi silenzi e le sue impunità, rappresenta in tutta la sua drammaticità l’implosione dello stato libanese. Un’implosione le cui cause vanno ricercate sia nella fragilità istituzionale e nei limiti del sistema politico che attribuisce le cariche su base confessionale, assegnando così ai cristiani maroniti il presidente, ai sunniti il premier e agli sciiti il presidente del parlamento, sia nelle contrapposizioni regionali tra Israele e Monarchie del Golfo da una parte e Iran dall’altra.
Il problema economico
Dalle proteste trasversali per confessione e censo contro le mancate riforme economiche del paese dell’autunno del 2019 e che hanno portato alle dimissioni del premier Hariri, la valuta libanese ha iniziato a perdere valore a causa della carenza di dollari e le banche hanno imposto limiti di prelievo sui conti in dollari. Il prodotto interno lordo (Pil) del paese è sceso da quasi 55 miliardi di dollari nel 2018 a circa 33 miliardi di dollari l’anno scorso, con un Pil pro capite in calo di circa il 40 per cento. Più del 40 per cento delle famiglie libanesi ha difficoltà ad accedere ai generi di prima necessità e il tasso di disoccupazione della nazione è salito dal 28 per cento nel febbraio 2020 a quasi il 40 per cento alla fine dell’anno. Lo stato libanese, nel tentativo di trovare valuta estera per le importazioni di carburante, sta fornendo meno di cinque ore di elettricità al giorno nella maggior parte del paese, con gravissime conseguenze per il settore sanitario. Secondo la Banca mondiale, una contrazione così brutale è solitamente associata a conflitti o guerre e, a differenza della storia recente, questa volta le banche libanesi sono in gran parte insolventi. Emblematiche sono le indagini in Francia e Svizzera, rivelate da un’inchiesta del New York Times, che vedono coinvolto per frode e corruzione il capo della banca centrale libanese Riad Salameh, considerato per anni in patria e all’estero un mago della finanza capace di mantenere in vita l’economia e la valuta stabile anche a fronte di guerre, omicidi e disordini politici. Salameh, nominato capo della Banca centrale nel 1993 da Rafik Hariri negli anni della ricostruzione del Libano, ha stabilizzato la valuta, aumentato gli investimenti esteri e fissato la sterlina libanese a circa 1.500 per dollaro, un ancoraggio che avrebbe sostenuto l’economia per più di 20 anni, ma che richiedeva un flusso costante di dollari per rimanere sostenibile. Il sistema era fragile perché rischiava il collasso se fossero finiti i soldi. Nonostante ciò, ogni volta che il Libano affrontava nuove crisi, gli aiuti esterni continuavano ad arrivare, indipendentemente dai governi che andavano e venivano, Salameh restava saldamente al suo posto a gestire denaro ma soprattutto favori ai mediatori di potere del sistema politico libanese. Dopo decenni di stabilità il sistema Salameh ha iniziato ad andare in crisi, portando il rapporto debito/Pil al 138 per cento, il terzo più alto al mondo. La contemporanea crisi in Siria, paese cui il Libano era strutturalmente ed economicamente legato, non faceva che aumentare l’instabilità fino a quando, alla fine del 2019, il sistema è crollato. Le banche hanno quindi imposto limiti ai prelievi e la Banca centrale ha iniziato ad attingere alle sue riserve, che includevano grandi quantità di denaro dei depositanti, per mantenere l’ancoraggio della valuta al dollaro. Di fatto, come evidenziato dal premier dimissionario Hassan Diab, il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sopportare. In questo contesto, i recenti veti incrociati tra il presidente Michel Aoun e Saad Hariri hanno impedito la formazione di un esecutivo che possa mettere in campo quelle riforme che le istituzioni internazionali ritengono non più procrastinabili e che andrebbero a sbloccare i quasi 11 miliardi di dollari di aiuti promessi dalla Banca mondiale, dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e dall’Arabia Saudita. Alla paralisi politica si aggiungono le conseguenze della perdita del potere di acquisto sul salario dei militari delle stesse forze armate libanesi (Laf), istituzione di circa 80mila effettivi che anche nei momenti più drammatici della storia recente ha saputo rappresentare un punto di riferimento per tutte le comunità libanesi. Questo spiega anche le preoccupazioni di Israele e l’offerta di aiuti umanitari, tramite i canali di comunicazione tra Idf e Unifil, al governo di Beirut. Per Israele, il collasso delle istituzioni libanesi, con un possibile rafforzamento del ruolo iraniano e degli Hezbollah rischia di avere conseguenze al di là dei confini del paese dei cedri. Israele teme che, nell’eventualità di un nuovo accordo sul nucleare, l’Iran possa trovare ulteriori spazi di manovra nella regione e in Libano. Ad agosto, l’Onu dovrà rinnovare il mandato dell’Unifil e discutere dell’eventuale estensione di competenze dell’operazione per eventualmente fronteggiare l’ulteriore instabilità derivante dalla crisi politico-economica. La Francia, sin dalle visite del presidente Emmanuel Macron subito dopo l’esplosione del porto di Beirut, ha cercato a più riprese, senza successo, di mettere alle strette la classe politica libanese e si appresta, come dichiarato dal ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, a indire insieme alle Nazioni unite una conferenza internazionale sul Libano, il prossimo 4 agosto. Insieme a Parigi anche gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno rivolto dal G20 di Matera, un appello al senso di responsabilità dei leader libanesi a superare le divergenze, ma la mancata formazione del governo Hariri sembra far precipitare le ultime speranze. Non è pertanto da escludere che, in assenza di un nuovo esecutivo, si possa cercare di far arrivare, attraverso aiuti umanitari, il paese dei cedri alle prossime elezioni parlamentari previste nel maggio del 2022. Elezioni che, però, alla luce del sistema politico confessionale fortemente cristallizzato, rischiano di riproporre, se non con qualche variazione in termini di consensi elettorali, la stessa classe politica che ha governato il Libano negli ultimi trent’anni. Il rischio che il Libano possa diventare l’ennesimo stato fallito nel Mediterraneo è dietro l’angolo e l’Italia deve farsi parte attiva nell’ambito degli sforzi condotti da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita per prevenire un ulteriore focolaio di instabilità nell’area del Mediterraneo.
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