Dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, si è capito che per essere eletti non servono particolari esperienze politiche né tanto meno qualifiche pregresse. Bastano la popolarità e la fama. Magari non servono a governare bene, ma quello riguarda la fase successiva, quando ormai i voti sono stati raccolti. Attori, medici ed ex atleti concorrono per cariche politiche, con alterne fortune.

Una categoria di celebrità però fatica ad affermarsi ed è quella degli scrittori, sia di fiction sia di saggi. Certo per gli autori di fantasia in particolar modo le cose sono difficili: bastano le parole dei propri personaggi per essere accusati di qualunque cosa. Così è accaduto molti anni fa allo scrittore socialista Upton Sinclair, candidato per i democratici alla carica di governatore della California nel 1934 e lo stesso per un altro romanziere, Gore Vidal, fermato senza neppure vincere le primarie per il Congresso nel 1960.

Per questo ciclo elettorale ci hanno provato il giornalista e autore del New York Times Nicholas Kristof e il memorialista J.D. Vance, autore del libro autobiografico Elegia americana.

Se nel primo caso la competizione è finita ancora prima di iniziare, con Kristof che non è riuscito a provare di essere in regola con i requisiti di residenza in Oregon per diventare il prossimo governatore, nel caso di Vance si potrebbe arrivare fino al Senato per i repubblicani, grazie all’endorsement ricevuto da parte dell’ex presidente Trump, dando un nuovo grattacapo a Mitch McConnell, che fatica a governare un gruppo sempre più eterogeneo.

L’elegia

Elegia americana però non è un libro qualunque. È stato forse il maggiore caso editoriale del 2016 in ambito saggistica, anche se si tratta di un memoir romanzato.

Parla di una storia familiare, a partire dai nonni, emigrati dai monti Appalachi in West Virginia fino all’Ohio. Lì il piccolo James, il primo nome di J.D., vive con la madre che ha divorzia quando lui era ancora un neonato. Vive un’infanzia difficile con tre patrigni diversi, in un contesto di povertà e degrado sociale.

Nel libro si parla anche di come questa comunità di bianchi poveri, un tempo legatissima al partito democratico (nelle case del West Virginia era comune trovare una foto del presidente Franklin Delano Roosevelt, autore del New Deal che diede un po’ di prosperità economica alle comunità di minatori di quelle zone), sia passata a sostenere Donald Trump come presidente. E come leader che comprende le loro esigenze di politica sociale contro quelle élite indifferenti ostili a loro in favore dei poveri delle grandi città.

La critica

All’epoca questa analisi è stata largamente condivisa non soltanto dal mondo conservatore, ma anche dai media mainstream progressisti come il New York Times o il Washington Post.

Tra le poche voci dissenzienti c’è stata quella di William Easterly, docente di economia alla New York University, che ha criticato su Bloomberg la visione fissista di Vance che vedeva la comunità dei bianchi poveri appalachiani, quegli “Hillbilly” del titolo originale dell’opera, come un tutt’uno indivisibile e quasi immutabili.

Le prime idee

All’epoca Vance non aveva però una buona opinione di Trump, pur considerandosi un conservatore. Ha votato per il candidato indipendente Evan McMullin alle presidenziali del 2016 e ha scritto in un editoriale pubblicato a febbraio 2016 su Usa Today che Trump era un imbonitore che proponeva ricette “assurde e immorali” ma che proponeva qualcosa per cui “la sua gente lo adorava”.

Partiamo da questo punto per capire la trasformazione di J.D., classe 1984, ex marine veterano della guerra irachena. Dopo la specializzazione in legge a Yale, è andato a lavorare a San Francisco per la società di venture capital Mithril Capital del miliardario ultraliberista Peter Thiel.

Fino al dicembre 2016, quando è tornato in Ohio con l’intenzione di fondare una società no profit per combattere la dipendenza da oppioidi, uno dei temi ricorrenti del suo libro. Il nome scelto, Our Ohio Renewal, alla fine si è rivelato beffardo: nell’agosto 2021 un’inchiesta di Business Insider ha rivelato quanto poco l’organizzazione avesse fatto per gli scopi che si era prefissato: un fundraising quasi inesistente, che ha raccolto la cifra di 50mila euro all’anno e un’azione trascurabile.

Interpellato dalla testata, il portavoce dell’Ohio Opioid Education Alliance, la più grande associazione statale che riunisce gli organismi che lottano contro le dipendenze, ha dichiarato di non aver mai sentito parlare di Our Ohio Renewal. Nel frattempo, le idee di Vance erano cambiate.

Cambiamenti

A cominciare dalla sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nell’agosto 2019 in una cerimonia a Cincinnati e annunciata con un intervista alla rivista “The American Conservative”, uno dei principali magazine sostenitori del nuovo repubblicanesimo di matrice trumpista e promotore di ogni guerra culturale.

Nel febbraio 2021 la metamorfosi di Vance è cominciata a pieno regime: il suo ex datore di lavoro Peter Thiel ha donato dieci milioni di dollari a un super pac, Our Ohio Values, per lanciare la sua corsa per il seggio dell’uscente Rob Portman, un repubblicano moderato che ha deciso di non ricandidarsi nel 2022.

Dopo aver lanciato un comitato esplorativo a maggio, nel luglio dello scorso anno ha annunciato la candidatura alle primarie. Per le quali all’inizio ha fatto grande fatica. Nei primi sondaggi era quasi sempre dietro ad altri avversari più blasonati, come l’ex tesoriere dell’Ohio Josh Mandel e il banchiere Mike Gibbons.

Una distrazione

Nel frattempo Vance ha dimenticate le sue idee su Trump, sulle quali ha fatto pubblica ammenda: adesso per lui Trump è stato un grande presidente. Ha definito “sporchi” gli immigrati illegali, dopo che anni prima aveva condannato “il linguaggio d’odio”. Ma questo è tutto sommato un curriculum da repubblicano standard.

Vance è andato oltre, allineandosi alle posizioni distruttive di Steve Bannon, affermando che, qualora Trump vincesse le elezioni del 2024, «dovrebbe rimpiazzare ogni singolo burocrate federale con la nostra gente».

Un linguaggio quasi autoritario che però ben si sposa con la sua posizione filorussa sulla guerra in Ucraina. Lo scorso 22 febbraio, poco prima che l’invasione iniziasse, aveva detto proprio a Bannon che a lui «non interessava nulla dell’Ucraina» e che questa avrebbe distratto gli elettori dai nostri «veri problemi».  

Nel cerchio di Trump

Qualche giorno dopo ha ammesso che l’invasione fosse «oggettivamente una tragedia». Ma ha anche detto che bisognava pensare agli americani e alla sicurezza del confine con il Messico, per altro lontano migliaia di chilometri dall’Ohio.

Come per magia, le sue difficoltà con i finanziatori sono scomparse quando il 15 aprile è arrivato il tanto desiderato endorsement di Donald Trump, che deve aver particolarmente apprezzato la genuflessione di quello che era stato un suo avversario culturale.

Il sostegno si è aggiunto a quello di Tucker Carlson, del senatore nazional-conservatore del Missouri Josh Hawley e della deputata estremista Marjorie Taylor Green.

Anche se la sua autodefinizione di “outsider conservatore” di sicuro è corretta nei confronti della leadership repubblicana al Senato, che avrebbe quasi certamente preferito un candidato più moderato e meno tendente a infilarsi nelle polemiche nazionali, lo stesso non si può dire per la sua vicinanza a quello che è il “cerchio magico” trumpiano.

L’opposizione

Vance sembra particolarmente ben collegato all’ex presidente, a un finanziere come Peter Thiel e a un influencer potentissimo come il giornalista Tucker Carlson. Tra i suoi obiettivi ormai c’è la costruzione di un nuovo conservatorismo, radicalmente trasformatore con richiami non solo retorici all’Ungheria di Viktor Orbán.

Anche se i sondaggi stanno iniziando ad andare bene (ora lo vedono in testa per la prima volta) e anche il flusso di denaro è ripreso alla grande, sulla sua strada c’è un gruppo che non vede bene queste sue uscite: i residenti in Ohio di origine ucraina sono 80mila. Un blocco di voti che potrebbe contare molto, se le sue uscite continueranno a essere impopolari tra i moderati repubblicani. Il sostegno di Trump, in fin dei conti, non è più la pallottola magica di qualche anno fa.

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