Dopo anni di unione nella casa dell’occidente democratico, oggi a separare Usa ed Europa c’è la consapevolezza che quella casa non è più destinata ad allargarsi. Gli Usa lo hanno capito, l’Europa no
Potrà sembrare una metafora banale, ma la storia del legame tra Europa e Stati Uniti dal dopoguerra a oggi assomiglia a quella di un matrimonio. Magari inizialmente contratto per necessità e proseguito per convenienza, ma quantomeno sostenuto dalla convinzione che, in fondo, si conviveva bene all’interno della stessa dimora: quella della civiltà occidentale, che andava protetta e allargata il più possibile per ospitare chi desiderasse entrarvi.
Ed è forse proprio su questo ultimo punto che la de-globalizzazione e i nuovi equilibri di potenza hanno avuto più buon gioco nell’incrinare l’amorevole coabitazione: non solo la casa ha smesso di essere ampliata, ma rischia di dover essere dolorosamente divisa.
Premesse diverse
Non dovremmo rimanerne troppo sorpresi: è sempre stato chiaro che le ragioni fondanti di questa unione fossero diverse e talvolta distanti. L’Europa ha legato la sua idea del progresso civile e democratico al miglioramento della qualità della vita dei suoi cittadini attraverso il benessere economico e sociale e l’ampliamento dei diritti.
Una visione proiettata anche sulle nazioni oltre i suoi confini, esortate ad affidarsi al diritto internazionale per far valere le proprie ragioni e risolvere i conflitti. Dagli errori della nostra storia abbiamo imparato che la tirannia nasce dall’incrocio tra il sonno della ragione e la brama di potere. Così ci siamo persuasi che ai popoli basti raggiungere questa medesima consapevolezza per correre gioiosamente alle urne e difendere tutto ciò che ci sta più a cuore: dall’ambiente, all'autodeterminazione.
Negli Usa, nati dalla tensione ideale di una lunga guerra di indipendenza, si è al contrario coltivata la convinzione messianica che, più che la conoscenza, ai popoli vada fornita una buona occasione per marciare verso la libertà. Che sia attraverso la forza economica di un capitalismo travolgente o quella militare dell’esercito più potente della storia, un momento di rottura è necessario.
Per citare Hannah Arendt «la guerra non ripristina i diritti, ma ridefinisce i poteri»: una dottrina che gli Stati Uniti hanno perseguito nella speranza che quel potere finisse nelle mani di popoli tanto riconoscenti verso i propri “liberatori” da desiderarne i valori e i prodotti.
Approcci diversi, ma che non cambiano la sostanza: americani e europei erano convinti che le genti fuori dai due continenti — da Baghdad a Pechino, dal Venezuela alla Somalia — non aspirassero ad altro che alla libertà offerta dalla democrazia e dal nostro stile di vita. Solo l’ignoranza e qualche dittatore spietato si frapponeva tra esse e la felicità.
Senza casa comune
La crepa nella casa dell’atlantismo si è allargata col progressivo sgretolarsi di questa convinzione. La maggior parte delle guerre condotte dagli Usa negli ultimi 70 anni hanno fallito nell’intento di esportare le ragioni della democrazia. Gli interventi in Afghanistan e Iraq hanno sancito il crollo definitivo di tale certezza.
Oggi gli Stati Uniti si rendono via via sempre più conto di come vi siano società a cui non interessa imbracciare una rivoluzione liberale innescata da uno sbarco di marine o di fast food. Tanto che persino il dibattito interno non verte più su “come” proiettare la propria influenza fuori dai confini, ma sulle ragioni per cui è meglio ritirarsi: tra una “sinistra” americana che si sente in colpa per l’interventismo del passato e una “destra” impaziente di vedere un mondo che se la cava da solo.
Certo, ora per gli Usa capire quale nuova strategia adottare è un processo complicato e lacerante. Eppure, persino questa esitazione è un passo in avanti considerevole rispetto alla condizione europea: una comunità intorpidita che appare ancora lontana dal realizzare che il diritto, il benessere economico e la qualità dell’aria non sono le uniche e massime aspirazioni dei più.
Quando Emmanuel Macron paventa la morte dell’Europa, o Mario Draghi ne predica un cambiamento radicale, si avverte l’esigenza di ripensare anche il rapporto tra Unione europea e resto del mondo: un percorso che gli Stati Uniti stanno già compiendo e che li porterà a maturare una diversa strategia molto prima di noi. Ed è verosimile che essa non sentirà più l’esigenza di una casa comune.
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