- Un sondaggio elaborato dall’agenzia Elabe per conto del settimanale L’Express e della rete all news Bfmtv ipotizza Valérie Pécresse vincente al secondo turno dell’elezione presidenziale francese della prossima primavera per 52 a 48.
- E allora, Éric Zemmour corre davvero per se stesso o si è messo in gioco solo per fare un favore ad altri?
- La storia del personaggio, il suo carattere, la sua verve polemica, i toni affilati dei suoi interventi di ieri e di oggi rendono difficile credere che il suo conclamato machiavellismo sia giunto al punto di fargli mettere a repentaglio una carriera di successo per consentire ad altri di raccogliere i frutti della sua azione di guastatore.
Il dubbio si era già insinuato in alcuni osservatori, ma era stato dai più liquidato come uno dei tanti esempi di mania complottistica, e può darsi che questa fosse la lettura più appropriata.
Eppure, c’è da scommettere che la domanda verrà riproposta, e con maggiore forza, all’indomani del sondaggio elaborato dall’agenzia Elabe per conto del settimanale L’Express e della rete all news Bfmtv che ipotizza Valérie Pécresse vincente al secondo turno dell’elezione presidenziale francese della prossima primavera per 52 a 48.
Ma Éric Zemmour corre davvero per se stesso o si è messo in gioco solo per fare un favore ad altri?
La corsa per la presidenza
Posto in termini così crudi, l’interrogativo difficilmente può avere una risposta affermativa. La storia del personaggio, il suo carattere, la sua verve polemica, i toni affilati dei suoi interventi di ieri e di oggi rendono difficile credere che il suo conclamato machiavellismo sia giunto al punto di fargli mettere a repentaglio una carriera di successo per consentire ad altri di raccogliere i frutti della sua azione di guastatore.
Soprattutto se, come si è sostenuto da più parti, l’esito della sua discesa in campo fosse un indebolimento del fronte anti-macroniano, con la suddivisione in parti più o meno equivalenti del patrimonio elettorale dell’opposizione che si autodefinisce patriote e che ai critici è più congeniale etichettare come nazionalista, sovranista o populista.
La Francia di Macron, con il suo sottofondo mercatista, cosmopolita ed elitario, è talmente agli antipodi di quella sognata e rimpianta dall’ex editorialista di Le Figaro da allontanare anche il benché minimo sospetto di collusione fra i due. Ma nei confronti dei Républicains, ovvero del partito postgollista già di Chirac e Sarkozy che ha da pochi giorni scelto a rappresentarlo nel duello per l’Eliseo la presidente della regione Ile-de-France, il discorso può essere diverso.
E potrebbe indurre a dar credito all’ipotesi di uno Zemmour inconsapevole strumento di strategie altrui – e indotto a scendere nell’arena da altri, ben al corrente di questo piano di battaglia. A sorreggere questa ipotesi, per quanto azzardata possa apparire, c’è più di un elemento su cui vale la pena di riflettere.
Le strategie degli altri
In primo luogo, c’è il riscontro delle cifre di sondaggio che hanno accompagnato tutta la fase di pre-campagna presidenziale. Concordemente, tutte le società demoscopiche hanno sino ad oggi relegato i possibili candidati dei Républicains molto dietro Marine Le Pen, data – fino all’entrata in scena del «piccolo ebreo berbero» (come ama definirsi in ognuna delle sue uscite pubbliche) – per sicura presente al ballottaggio, con buone possibilità di virare addirittura in testa al primo turno.
Anche il più accreditato (ma poi sconfitto) Xavier Bertrand non è stato mai quotato oltre il 13 per cento, e Pécresse ha viaggiato sul crinale dei dieci punti percentuali. Il preannuncio della candidatura di Zemmour non ha scosso questa situazione, ma ha tolto alla (formalmente ex) leader del Rassemblement national il 6-7 per cento, lasciandole al massimo la prospettiva di classificarsi seconda. E riducendo il gap con i candidati della destra classica (o “molle”, come Le Pen padre amava definirla).
Un secondo dato interessante è l’immediato soprassalto ideologico-programmatico che l’effetto-Zemmour ha provocato nel campo dei Républicains. La concorrenza dell’outsider ha spinto tutti gli aspiranti al ruolo di candidato alla presidenza a fare a gara per includere nelle rispettive agende i temi da lui riportati all’ordine del giorno: chiusura all’immigrazione, tutela più rigorosa della sicurezza, recupero di sovranità e di autorevolezza dello stato sul piano internazionale.
I dibattiti svoltisi prima e durante il congresso si sono trasformati in una sorta di gara a inseguimento, sia pure su toni più controllati, delle prese di posizione – spesso volutamente provocatorie – della ex star dei talk show televisivi. E da questa radicalizzazione del discorso anti-sinistra, da cui non si è sfilato nemmeno il criptomacroniano Bertrand, ha tratto giovamento soprattutto il pretendente collocato più a destra nello scenario, Éric Ciotti, proiettato a quote di consenso interno impensabili, fino quasi al 40 per cento nel confronto finale con Pécresse: un exploit in cui ha certamente avuto la sbandierata scelta dell’esponente nizzardo di votare per Zemmour qualora giungesse al ballottaggio contro l’attuale presidente.
Un’affermazione che, ad avviso di taluni commentatori, potrebbe essere stata pronunciato con il preciso intento di ricavarne una simmetrica contropartita, cioè un outing zemmouriano in favore di Pécresse – che ha subito recuperato Ciotti nella propria squadra – qualora fosse lei a sfidare Macron nel round decisivo.
La possibile unione delle destre francesi
Ad accreditare le illazioni su un possibile “gioco di squadra” sotterraneo architettato dai postgollisti c’è poi un terzo appiglio: il mai negato attaccamento di Zemmour alla prospettiva di un’unione delle destre in grado di recuperare a questo frastagliato e da sempre litigioso schieramento tutte le componenti che se ne sono progressivamente separate.
A partire da quelle che dalla metà degli anni Ottanta hanno ceduto alle sirene lepeniste, coagulando attorno al Front national quel 15-20 per cento di voti che, senza riuscire a tradursi in un peso parlamentare a causa della logica coalizionale indotta dal sistema elettorale maggioritario a doppio turno e della connessa conventio ad excludendum fra i partiti del “fronte repubblicano” in funzione anti-FN, ha più volte consentito alla sinistra, sia unita come ai tempi del primo successo di Mitterrand, sia divisa come all’epoca di Hollande, di prevalere sul centrodestra.
L’accusa rivolta da Zemmour a Marine Le Pen di essere in fondo «una donna di sinistra» e di avere solo il sostegno di operai e disoccupati, definiti «rispettabili» ma giudicati non adeguati a incarnare la sua idea di rinnovata grandeur della Francia, mira senz’altro ad alienarle i favori dei suoi sostenitori destrorsi.
Allo stesso scopo puntano i suoi elogi agli ambienti cattolici conservatori che in un passato recente si sono sforzati di dar voce a un’ipotetica maggioranza silenziosa portando centinaia di migliaia di persone a manifestare contro i matrimoni e le adozioni omosessuali, la maternità surrogata, la teoria del genere.
Ambienti con cui Marine Le Pen, per il suo notorio attaccamento a un’impostazione laica del rapporto fra religione e politica, ha sempre avuto relazioni piuttosto fredde, e che dopo vari anni di stretta collaborazione con i Républicains, se ne sono allontanati, delusi, denunciandone la vocazione ai compromessi.
Non è un caso che Laurence Trochu, esponente di punta di Sens commun, che della Manif pour tous era stato uno dei pilastri e che nella campagna presidenziale del 2017 aveva fortemente appoggiato il républicain François Fillon, abbia garantito il pieno sostegno del suo gruppo (oggi ribattezzato Mouvement Conservateur) a Zemmour, intervenendo al comizio di lancio della sua candidatura.
Anche su questo versante, quella che oggi appare come una frattura fra i postgollisti e una frangia del loro elettorato potenziale potrebbe domani essere sanata dall’eventuale e non improbabile pronuncia del polemista a favore di Valérie Pécresse qualora fosse costei a conquistarsi il ruolo di sfidante del presidente uscente.
Il sostegno a Zemmour
Un ultimo, ma certamente non secondario, tassello di questo ipotetico mosaico è costituito dai profili di alcuni dei personaggi che più hanno assecondato e sostenuto l’ambizione di Zemmour di passare, in politica, dal commento al protagonismo e, come ha affermato nella sua dichiarazione di candidatura, «prendere in mano» il destino della Francia, «non per riformarla ma per salvarla».
Fra coloro che gli hanno fornito le risorse necessarie all’allestimento della tournée attraverso il paese che, con il pretesto della presentazione del suo ultimo libro, gli ha assicurato bagni di folla e una costante attenzione mediatica, ci sono un finanziere liberalconservatore come Charles Gave e uno cattolico tradizionalista come Vincent Bolloré, il generale Bertrand de la Chesnais, promosso direttore di campagna, ed altre personalità che con la destra “classica” hanno intrattenuto stretti rapporti, pur trovandola troppo incerta e timorosa, se non rinunciataria, nei confronti del potere macroniano.
Se l’appoggio accordato al polemista sia dettato da una genuina convinzione nella capacità del loro beniamino di fare centro nel suo assalto all’establishment politico-intellettuale oppure dal desiderio di assicurarsi uno strumento di influenza o di ricatto nei confronti della destra interna al sistema, al momento è difficile dire.
Ma che Zemmour possa finire con il recitare, anche a dispetto della volontà sua e dei suoi entusiasti militanti, la funzione dell’ariete per conto terzi, non è una congettura da scartare a priori. Se ne potrebbe avere una prima conferma se in breve tempo il campione della “Francia eterna” riuscirà a raccogliere gli oltre duecento attestati di sostegno di sindaci o eletti dipartimentali di cui necessita per potersi effettivamente candidare e che attualmente gli mancano.
A quel punto, l’ombra della “manina” pronta a giovarsi del suo potenziale di divisione del campo sovranista/populista comincerebbe a lasciarsi intravedere più chiaramente.
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