La battaglia per la supremazia sul quadrilatero mediorientale ormai include anche Israele. I ribelli dovranno improvvisarsi governo nazionale e al Jolani non ha gli uomini sufficienti per controllare tutta la Siria. Ankara proverà a guidare la transizione del paese senza certezza di riuscire, mentre l’Iran ha perso tutto il peso storico nell’area
Il mondo si interroga su al Jolani (vero nome al Sharaa, un’importante famiglia siriana da cui sono venuti ministri e un vicepresidente) e sul suo movimento, su come sarà la Siria di domani.
Troppo presto per far previsioni anche se si può dire che la situazione complessiva del paese si potrebbe definire in stato di anarchia soft. Il movimento Hayat Tahrir al Sham (HTS) non prevedeva di conquistare tutta la “Siria utile” tenuta dal regime (le maggiori città), ma di attestarsi solo ad Aleppo.
Il fallimento della trattativa Erdogan-Assad li ha catapultati verso la capitale senza avere a disposizione gli uomini sufficienti per occupare ogni spazio. Di conseguenza siamo di fronte alla nascita di molte fazioni armate improvvisate, non tutte con le medesime direttive.
Ci vorrà del tempo perché la guida di HTS fermi il disordine e si imponga su ogni territorio. HTS sarà costretta a ingaggiare molti uomini armati e responsabili raffazzonati e opportunisti.
Il nuovo puzzle mediorientale
Ciò che invece si vede con maggior chiarezza è la tendenza generale, cioè la redistribuzione delle forze nel Medio Oriente, con effetti sia sul Mediterraneo che sul Golfo.
Dopo la fine della guerra fredda, a decidere del futuro mediorientale c’era il quadrilatero Egitto-Turchia-Arabia Saudita-Iran: tra questi quattro si concorreva per chi avesse la maggior influenza, soprattutto nelle questioni riguardanti Israele e l’universo dell’islam estremista (fondamentalista-salafita-jihadista).
Piano piano l’Egitto è sbiadito fino a finire in secondo piano. Anche l’Iran, dopo essere cresciuto in potenza e aver imposto il suo influsso per una decina d’anni mediante l’arco sciita (Iran-Siria-Libano-Iraq), pare in declino e divenuto una tigre di carta. Un nuovo attore ha preso il posto dell’Egitto: Israele stesso che, da acerrimo nemico di tutti, ora fa parte del quartetto e va considerato nell’equazione.
Fino al 2016 gli stati arabo-sunniti e gli iraniani pensavano a un Medio Oriente “senza Israele”; adesso si sono arresi all’ineluttabilità della sua presenza. Per mantenere l’equilibrio della regione è essenziale che nessuno dei quattro lati diventi troppo potente rispetto agli altri.
Il primo a sfidare tale condizione bilanciata è proprio Israele che pare voler oltrepassare ogni limite. Ciò preoccupa in particolare Riad, non tanto per la guerra a Gaza (dei palestinesi non si cura nessuno) ma per l’attacco al Libano dove l’Arabia Saudita ha speso molta influenza e denaro (si ricordi il sostegno a Rafik Hariri e la ricostruzione di Beirut).
Ma anche Ankara con il colpo siriano sembra voler attribuirsi un peso troppo grande rispetto agli altri. La competizione tra le influenze sarà dunque intensa, con una focalizzazione attorno a Damasco e, di conseguenza, anche a Baghdad.
L’instabilità
Attualmente non c’è stabilità dei paesi del post-Baath (il partito nazionalista laico arabo che ha detenuto per decenni il comando nei due paesi, anche se mediante fazioni opposte).
La Siria è un mosaico di etnie, popoli e religioni: con tutta la miglior volontà al Jolani e i suoi avranno molta difficoltà a gestirlo. C’è da vedere cosa faranno i curdi del Rojava: anche se i turchi vogliono la fine della regione autonoma (come dimostra la recente presa di Mambij), ci sono pur sempre gli americani a proteggerli.
L’errore fatto dal YPG (le forze curde di protezione) è di aver voluto imporre la loro lingua e cultura in un’area dove non sono maggioritari. Di conseguenza non riscuotono molta simpatia in Siria al di fuori della loro comunità.
Poi ci sono i drusi a sud che manifestano volontà autonomiste anch’essi. Al Jolani dovrà accordarsi anche con la minoranza alawita, la più importante del paese e nella cui regione costiera di Lattakia ci sono le basi russe.
L’Iraq invece è sostanzialmente diviso in tre pezzi: a nord il Kurdistan autonomo che si muove da solo ed è autosufficiente in materia di risorse (controlla buona parte del petrolio settentrionale). Poi ci sono le due fazioni sciite che si contendono il resto, più o meno equivalenti in termini di forza: quella pro-iraniana al governo e quella autonomista di Muqtada al Sadr all’opposizione. In calo di influenza gli sciiti filo-americani e molto silenziosi i clan sunniti del triangolo Samarra-Falluja-Tiqrit (l’universo di Saddam Hussein dove sorse l’Isis).
Sarà da vedere quale corrente sciita sosteranno. Declinanti le minoranze cristiane e yezide, senza reale influenza. L’Iraq è difficile da governare come si è visto dalle recenti crisi politiche. Ankara proverà a guidare la Siria by proxy senza certezza di riuscire: potrebbe trovarsi avvinghiata in un intreccio difficile da sbrogliare.
Dal canto suo l’Iran ha perso peso in tutta la regione: non ha reagito allo spezzarsi dell’arco sciita ed è privo dell’accesso al Libano e a Hezbollah.
Ciò ha conseguenze dirette sull’Iraq: c’è da prevedere un nuovo conflitto politico (se non armato) a Baghdad tra filo-iraniani, filo-americani e autonomisti, con questi ultimi in vantaggio. Da tali due terreni di sfida dipende il prossimo futuro del Medio Oriente. Occorrerà vedere quali parti decideranno di prendere Riad e Tel Aviv: fino a che punto conviene il rafforzamento di Ankara e l’annullamento di Teheran?
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