«Abbiamo spento da poche ore un grosso incendio in un panificio alla fine di Al-Jalaa Street, a nord-ovest di Gaza City – ci racconta Amir, un volontario della protezione civile - è un disastro». Durante i bombardamenti degli ultimi giorni un ordigno ha colpito proprio il forno che fornisce pane a centinaia di sfollati che vivono in zona.

Nell’ultima settimana l’esercito israeliano ha spostato le truppe nel nord della Striscia e ha imposto lo sfollamento a oltre 200mila persone. Anche l’ospedale Kamal Adwan, uno dei pochi rimasti aperti nel nord, ha ricevuto l’ordine di evacuazione.

«Ci hanno dato 24 ore per svuotare l'ospedale dai pazienti, dal personale medico e da tutti i presenti», dice Hossam Abu Safia, direttore dell’ospedale Adwan. «Questa è una misura pericolosa che minaccia il collasso del sistema sanitario nel nord della Striscia». I raid di queste ore hanno colpito varie zone dell’area settentrionale di Gaza. «Stanno colpendo il quartiere di Al-Zaytoun, la zona di Jabalia Al-Balad, di Beit Lahia e Beit Hanoun», spiega il giornalista Hassan Isdodi. «Non ci sono più zone sicure a Gaza. Qui al nord ci sono tutti i profughi del sud e ora dove andranno 200mila persone?».

Tra un bombardamento e l’altro, mentre si cerca di capire dove rifugiarsi, anche il 7 ottobre a Gaza è passato senza nessun festeggiamento. «Non sapevamo nemmeno che giorno fosse finché non sono arrivati dei giornalisti a dircelo». Fatima Alamuddin, che la settimana scorsa ha sepolto la sua bambina, era scampata all’ennesimo bombardamento su Deir al Balah, nel centro di Gaza. C’è troppo dolore, nessuna energia per poter anche solo pensare di celebrare il massacro compiuto l’anno scorso dai miliziani. «Se qualcuno aveva pensato di organizzare una qualche parata ha immediatamente cambiato idea», racconta Hassan Isdodi.

Oggi, l’unica cosa che Gaza ricorda è l’inizio di una delle guerre più sanguinose della sua storia. «E cosa dovevamo festeggiare?», Fatima, che lavorava come segretaria di un avvocato, non ha paura e al microfono alza la voce, per far arrivare anche a km di distanza la sua rabbia. «Hamas ci ha condannati a morte tutti quanti, si è fatto scudo dei nostri figli e noi paghiamo ancora le conseguenze. Se potessi tornare indietro, me ne andrei da qui in ogni modo, pur sborsando tutti i miei soldi».

Negli ultimi giorni, alla rabbia contro Hamas, si è aggiunta anche quella verso la comunità internazionale. «Quando penso a cosa è successo il 7 ottobre scorso mi viene da vomitare», dice Abu Ahmed, un insegnante cinquantenne sfollato dal nord di Gaza City al campo di Deir Al Balah. «Oggi provo solo una enorme delusione nei confronti del mondo, che affermava di difendere i diritti umani, delle donne e dei bambini, e invece ci ha voltato le spalle», spiega. «Quando sentiamo che l’Europa dice stop al genocidio ormai non ci crediamo più. Tutte le belle parole si sono trasformate in polvere».

Così, dopo «un anno di aggressioni e bombardamenti che hanno ucciso 15 dei miei parenti temiamo che questo terribile anniversario non sarà l'ultimo», spiega Amira, madre di cinque bambini. «Israele non si fermerà finché non ci avrà sterminati tutti e il mondo, con il suo silenzio, sarà complice».

L’idea di dover affrontare un altro anno di guerra sta sfiancando anche quei palestinesi che fino a oggi hanno tenuto duro, sono rimasti ottimisti e hanno provato a sopravvivere in ogni modo. Ma con un altro inverno che incombe, con la pioggia e il freddo, potrebbe dare il colpo di grazia alla popolazione.

Attualmente, le vittime accertate a Gaza sono quasi 42mila mentre i feriti sono oltre 97mila. Anche Hamas non ha sbandierato più di tanto l’anniversario del 7 ottobre, complice anche la mancanza di nuovi adepti nella Striscia.

E proprio per far fronte alle difficoltà, i miliziani avrebbero aperto una campagna di reclutamento tra i più giovani promettendo una paga molto alta. «Si dice che stiano arruolando i ragazzini facendo leva soprattutto sull’aspetto economico», racconta il giornalista Ibrahim al Kasher. «E pare che stiano promettendo anche una via di fuga per i familiari attraverso i tunnel, ma di questo non abbiamo ancora certezza».

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