Il conto alla rovescia in vista della fatidica scadenza di sabato a mezzogiorno, quando il mancato rilascio di ostaggi israeliani da parte di Hamas potrebbe scatenare nuovamente la guerra di Gaza, è oramai entrato nel vivo.

Mercoledì una delegazione del movimento palestinese è arrivata al Cairo per incontrare mediatori egiziani: i media locali parlano di rinnovati sforzi negoziali per cercare di preservare il cessate il fuoco. Se dovessero avere successo, potrebbero scattare anche le discussioni per la seconda fase, prevista per il prossimo mese.

Nel frattempo però la linea di Washington rimane ferma. Secondo l’inviato americano in Medio Oriente, Steven Witkoff, «il presidente Trump ha chiarito che se non succederà qualcosa di diverso entro sabato, ci saranno grossi problemi». Lunedì Trump aveva detto di pretendere il rilascio sabato di «tutti gli ostaggi», alzando la posta rispetto ai termini stessi dell’accordo che, nella sua fase uno, prevede il rilascio settimanale di tre o quattro israeliani. In alternativa, aveva detto, «si scateni l’inferno».

A inizio settimana, citando violazioni da parte dello stato ebraico, era stato Hamas a “congelare” il rilascio degli ostaggi, salvo poi trovarsi di fronte a richieste ancora più massimaliste dal fronte israelo-americano. Martedì Netanyahu ha parlato ambiguamente del rilascio dei «nostri ostaggi» come condizione necessaria per evitare la ripresa della guerra. Senza specificare se intendesse i tre originariamente pattuiti secondo la tabella di marcia dell’intesa – dunque lasciando la porta aperta a un’eventuale marcia indietro di Hamas – oppure se facesse eco alle richieste intransigenti di Trump.

Il portavoce di Hamas Hazem Qassem da parte sua ha detto di non accettare «il linguaggio minaccioso di americani e israeliani». E Bezalel Smotrich, il ministro israeliano più contrario alla tregua oltre che il più necessario a Netanyahu per mantenere in piedi il suo governo, ha usato parole di fuoco in un video: «O tutti gli ostaggi vengono rilasciati entro sabato oppure niente elettricità, niente acqua, niente carburante, niente aiuti umanitari. Solo il fuoco e le fiamme dai nostri aerei». Smotrich ha continuato prospettando l’occupazione israeliana di Gaza, l’espulsione della popolazione «in linea col piano americano» e l’annessione. «Abbiamo l’appoggio internazionale, dia l’ordine!», ha ingiunto concludendo a Netanyahu.

Le trattative sul cessate il fuoco rimangono indissolubilmente legate al tavolo diplomatico sul futuro della striscia. Dopo le dichiarazioni shock di Trump sulla possibilità di trasferire i gazawi sopravvissuti a sedici mesi di guerra nei Paesi vicini, e riqualificare la striscia con investimenti stranieri sotto l’egida americana, il ministero degli esteri egiziano ha fatto sapere di stare lavorando a una controproposta che preveda la ricostruzione di Gaza senza la rimozione dei residenti.

Martedì la visita imbarazzata del re giordano Abdullah II alla Casa Bianca ha messo ancora più in evidenza la centralità del ruolo del Cairo. Abdullah ha temporeggiato offrendo di accogliere 2.000 bambini palestinesi gravemente malati in attesa di seguire la linea dell’Egitto, l’altro stato nel quale Trump pensa di poter indirizzare i palestinesi. Entrambi i paesi si trovano a un bivio. Opporsi al piano scellerato di Washington, sì, ma a che prezzo? Amman e il Cairo ricevono ogni anno circa 1,4 miliardi di aiuti americani.

Mercoledì fonti degli apparati di sicurezza del Cairo hanno detto all’agenzia Reuters che al Sisi non sarebbe disponibile a visitare Trump fintanto che il suo piano di evacuazione forzata rimane sul tavolo. L’Egitto si è anche mosso convocando per il 27 febbraio una riunione d’emergenza dei Paesi arabi sulla questione.

La vecchia Gaza egiziana

Negli storici negoziati con Israele sfociati negli Accordi di Camp David del 1979 l’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat aveva preteso la restituzione del deserto Sinai fino all’ultimo granello di sabbia. Non rivendicava però un territorio che era stato a sua volta parte dell’Egitto fra il 1948 al 1967: la limitrofa striscia di Gaza.

Troppo spinosa doveva sembragli la questione della popolazione di profughi palestinesi che negli anni Settanta avevano già fatto saltare in aria gli equilibri interni di Giordania e Libano. Ecco allora che nel testo finale dell’intesa si leggeva «il confine permanente tra Egitto e Israele è il confine internazionalmente riconosciuto tra l'Egitto e l'ex territorio mandatario della Palestina […] a prescindere dalla questione dello status della Striscia di Gaza».

L’offensiva di Hamas che ha scatenato la guerra è stata simbolicamente programmata per il cinquantesimo anniversario della Guerra dello Yom Kippur, iniziata il 6 ottobre 1973. È stata lanciata “in ritardo” il 7 ottobre, durante lo shabbat, soltanto perché i miliziani volevano massimizzare l’effetto sorpresa, come mezzo secolo prima fece l’Egitto. Recuperando successivamente i suoi territori nell’ambito degli accordi, ma lasciando a Israele la Striscia, Sadat pensava di essersi liberato di una questione spinosa. Invece alla fine Gaza è tornata a essere anche un problema egiziano.

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