Da aprile nessun camion umanitario ha raggiunto la zona centrale della Striscia, piena di profughi. È l’effetto della strategia dell’Idf, che controlla gli accessi e ha spinto gli abitanti di Rafah a nord
I carri armati israeliani continuano l’accerchiamento di Rafah, nella zona sud della Striscia di Gaza, tre settimane dopo l’inizio di un’operazione che, secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), ha costretto nuovamente alla fuga più di un milione di persone, le stesse che erano state sfollate dalla zona nord nella prima fase del conflitto.
L’esercito israeliano (Idf) ha detto di aver preso il controllo anche dell’intera zona cuscinetto lungo il confine dell’enclave palestinese con l’Egitto, il cosiddetto “Corridoio Philadelphia”, consegnando a Israele la piena autorità su tutti i punti di accesso a Gaza.
Nel frattempo continuano i combattimenti a Jabalia e Gaza City, a nord, dove l’Idf si era ritirato lo scorso febbraio dopo aver annunciato la fine delle operazioni, ma dove ora sono riemersi i miliziani di Hamas e degli altri gruppi armati. Gli stravolgimenti delle ultime settimane hanno modificato completamente la geografia della popolazione dell’enclave palestinese, compromettendo la già fragile logistica degli aiuti umanitari.
I valichi
La Striscia di Gaza in teoria ha sette punti di ingresso, ma quelli realmente funzionanti (anche prima della guerra) erano solo tre: i valichi di Rafah e Kerem Shalom a sud, e il valico di Erez a nord.
L’unico accesso non controllato direttamente da Israele era quello a Rafah, al confine con l’Egitto. Di recente è stato aperto un nuovo valico a nord (Erez West), mentre gli Stati Uniti hanno costruito un molo galleggiante nella parte centro-settentrionale (nei pressi del “Corridoio di Netzarim” controllato dall’Idf), che tuttavia si è danneggiato a causa del mare mosso ed è stato smantellato all’inizio di questa settimana, con la speranza di poterlo ripristinare in tempi brevi.
Come illustrato dal New York Times, prima dell’operazione di Rafah la maggior parte delle persone aveva trovato rifugio nella parte meridionale dell’enclave, dove attraverso i valichi di Rafah e Kerem Shalom entravano anche la maggior parte degli aiuti. Fino a inizio maggio circa 1,3 milioni di palestinesi erano ammassati vicino al confine meridionale, altri 500mila si trovavano nella zona centrale (al momento la più sicura), mentre 400-500mila persone erano rimaste nella parte nord.
Durante le operazioni di accerchiamento e avanzamento su Rafah però le persone si sono spostate per cercare riparo (anche su ordine dell’Idf), e ora 1,5 milioni di persone su 2,3 milioni circa dell’intera popolazione di Gaza si sono trasferite nella zona centrale dell’enclave, lontana e sostanzialmente isolata dai valichi della zona meridionale e settentrionale.
In base ai dati dell’Onu elaborati dal New York Times, dal 23 aprile al 6 maggio sono entrati 94 camion dai valichi a nord e 2636 dai valichi a sud. Dal 7 al 20 maggio, dopo l’inizio dell’invasione di Rafah, sono entrati 465 camion a nord, appena 40 dal molo galleggiante statunitense, e solo 143 dai valichi a sud. Nessuno di questi aiuti ha avuto accesso diretto alla zona centrale per raggiungere quel milione e mezzo di palestinesi che, fino a poco tempo prima, si trovava negli accampamenti a Rafah.
L’unico miglioramento si è verificato nella parte settentrionale grazie al nuovo valico di Erez West, che ha permesso di far arrivare aiuti a persone che da mesi sono maggiormente a rischio carestia.
Ma gli ultimi stravolgimenti rendono ancora più precaria la situazione già critica del grosso della popolazione, poiché l’intensificarsi dei combattimenti e il prolungarsi del conflitto impediscono all’Onu e alle ong di pianificare il trasferimento e la distribuzione degli aiuti.
Magazzini irraggiungibili
La sentenza emessa venerdì scorso dalla Corte internazionale di giustizia (Icj), che ha intimato a Israele di fermare l’offensiva su vasta scala a Rafah (secondo alcuni giudici le operazioni limitate sono consentite), si riferiva esattamente a questo. Il documento prende esplicitamente atto della «diffusione della carestia e della fame» a Gaza, sottolineando la necessità che tutte le parti interessate «garantiscano una fornitura senza ostacoli e in grande quantità dei servizi di base e dell’assistenza urgentemente necessari».
Anche distribuire i pochi aiuti che riescono a entrare è diventato molto più difficile e pericoloso. I recenti ordini di evacuazione di Israele in alcune parti sud e a nord della Striscia di Gaza hanno reso irraggiungibili i magazzini di molte agenzie umanitarie, la settimana scorsa l’Unrwa ha annunciato di aver sospeso la distribuzione a Rafah citando problemi di sicurezza, carenza di forniture e l’impossibilità di accedere al proprio magazzino.
Inoltre, senza la possibilità di pianificare consegne di aiuti ricorrenti e prevedibili i pochi camion che riescono a entrare vengono presi d’assalto dalle folle di persone disperate, o sequestrati dai gruppi armati.
La nuova realtà dell’enclave palestinese aggrava tutte le criticità esistenti, accelerando il rischio di carestia e crisi sanitaria, e di conseguenza la pressione internazionale su Tel Aviv e sui governi occidentali che devono affrontare l’indignazione e le proteste delle opinioni pubbliche.
A inizio aprile Israele si era impegnato ad aumentare gli aiuti concessi a Gaza dopo che un attacco con droni delle Idf aveva ucciso sette operatori della World Central Kitchen (Wck) a causa di un’errata identificazione degli obiettivi. Quattro settimane dopo Wck ha ripreso le attività «con la stessa energia e attenzione nel nutrire quante più persone possibile», fino a ieri, quando la ong ha annunciato la sospensione delle attività a Rafah.
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