Il “movimento”, dove esiste, dimostri con i fatti di essere diverso dall’immagine astiosa dipinta dal sistema dei media e dei partiti. Come? Innanzitutto rappresentando israeliani e palestinesi con rigore e rispetto della complessità
A Gerusalemme una docente della Hebrew University, Nadera Shalhoub-Kevorkian, la settimana scorsa è stata arrestata per reati d’opinione.
I motivi li racconta così il filogovernativo Israel Hayom: la professoressa aveva espresso dubbi sull’estensione degli stupri durante il pogrom di Hamas-Jihad e aveva definito «genocidio» la reazione israeliana a Gaza.
«Acts of genocide» sono contestati alle autorità israeliane dalla Corte internazionale di giustizia. Quanto ad Hamas, se Benjamin Netanyahu autorizzasse le indagini della Corte penale internazionale avremmo certezze sul pogrom (peraltro infame anche se risultasse che la propaganda israeliana ne ha gonfiato gli aspetti più orribili, com’è probabile).
Arabo-israeliana, femminista e giurista nota (insegna anche alla Queen Mary di Londra), Shalhoub-Kevorkian è stata scarcerata due giorni dopo: secondo il magistrato, gli indizi addotti dalla polizia non dimostravano che fosse “pericolosa” (ma resta imputata).
Appelli per il suo rilascio erano giunti da associazioni di studiosi del Medio Oriente come il britannico Brisme e l’italiano Sesamo. Prima di concludere che c’è ancora un giudice a Gerusalemme si dovrà attendere l’esito del processo. Ma intanto possiamo ricavare alcuni insegnamenti da questa vicenda “minore”.
I “sionisti”
Innanzitutto, non è secondario che un centinaio di docenti della Hebrew University abbia protestato contro l’arresto di Shalhoub-Kevorkian pur non condividendo, come scrivono in un documento, le sue affermazioni.
Docenti “sionisti”, va segnalato ai ragazzi italiani che considerano “sionista” sinonimo di occupante, colonialista, fascista. Così come “sionisti” sono gli ebrei israeliani che ogni giorno vanno nel West Bank per tentare di proteggere villaggi palestinesi dalle incursioni di masnade di coloni protetti dall’esercito.
Sono “sionisti” gli israeliani di B’tselem, i primi a chiamare col suo nome l’Apartheid nel West Bank. E, poiché sionista è ogni ebreo israeliano, sono tali anche gli scolaretti delle scuole israeliane: dobbiamo ritenerli invasori, “occupanti”?
Così come c’è sionismo e sionismo, così è stupido opporsi alla collaborazione tra le università italiane e le università israeliane, che anzi in alcuni settori andrebbe incentivata lì dove intralcia il nazionalismo costruendo pensiero critico.
Per esempio: senza il revisionismo dei HaHistoryonim HaChadashim, i “nuovi storici”, la storia di Israele, cominciando dalla sua nascita, sarebbe ancora la favoletta che la stampa italiana ripropone da decine d’anni.
Chi oggi vuole avere onesta contezza della complessità di una vicenda in cui diritti e colpe non possono essere separati con l’accetta deve inevitabilmente rivolgersi ai testi di accademici israeliani.
Infine, l’arresto di Shalhoub-Kevorkian per delitto d’opinione cade al margine di un conflitto geograficamente minuscolo che tuttavia sta diventando un evento globale proprio nell’arcipelago cosmopolita delle università internazionali, lì dove un larvale “movimento studentesco” (nato dapprima negli Usa, ora apparso anche in alcune università europee) da alcune settimane contesta la sostanziale passività dei governi occidentali davanti alla barbara guerra di Gaza.
Se quella passività dovesse protrarsi, il “movimento” metterebbe in discussione la stessa identità di “Occidente”. È tutto ancora molto confuso. Ma nel caos di segni e di simulacri cominciano a precisarsi i profili dei protagonisti.
Un nuovo Sessantotto
Innanzitutto i nuovi contestatori. In quanto studenti delle università e delle scuole superiori, sembrano il segmento più cosmopolita di una gioventù che fino a ieri pareva, come le precedenti, rassegnata all’immutabilità del reale, rifluita nel privato, disabituata a formulare idee estranee al circuito politico-mediatico.
Ma a New York gli studenti “in lotta” della Columbia University progettano addirittura una «global intifada», nientemeno che un nuovo Sessantotto mondiale dove Gaza sostituirebbe la guerra del Vietnam e diventerebbe l’occasione per ripensare tutto.
Il nascente “movimento” non ha ancora un’identità precisa. È multiforme, e tra le sue varie forme se ne intravedono anche di stantie e di tribali: per esempio, in varie università statunitensi gli studenti ebrei subiscono intimidazioni (mentre in altre sono i benvenuti nei raduni di protesta). La questione sarà decisiva.
Rifiutare l’equazione tra “sionista” e “agit-prop di Netanyahu” appare adesso la premessa necessaria per sottrarsi alla tradizionale tendenza al becero della vecchia sinistra radicale, populista, tribale: quella con la kefiah intorno al collo che strilla “From the river to the sea, Palestine willl be free” pur rendendosi conto che lo slogan è perlomeno ambiguo, giacché potrebbe alludere alla cancellazione della “entità sionista”.
Gaza e l’Ucraina
In Europa l’altro bivio fatale lo indica sin d’ora la solita compagnia di combattenti e reduci rifluita nel pacifismo: cerca di sovrapporre la guerra di Gaza e la guerra di Ucraina per rilanciare la tesi che, come Netanyahu, così Zelensky rifiuta il cessate-il-fuoco.
Chiunque giudichi onestamente sa che questo è falso. Le due guerre non sono omologabili, se non in questo: invocando un manipolato “diritto storico”, tanto la destra israeliana quanto Putin pretendono di fare quel che vogliono di popolazioni e territori sui quali, secondo la legalità internazionale, non possono esercitare alcuna sovranità.
Dal 2017 il Likud si attribuisce il diritto di dominare l’area from the river to the sea che include il West Bank. Ma questo dettaglio viene omesso nella narrazione prevalente presso grandi media occidentali. Dove l’equazione pacifista Putin=Zelensky viene sostituita dall’equazione non meno mendace tra Putin e i palestinesi, considerati tutti fan di Hamas (in particolare i gazawi, per aver votato Hamas nell’ultima elezione, 17 anni fa) e odiatori degli occidentali.
Le strategie messe in atto contro gli studenti in occidente variano. Negli Usa, durante le inquisizioni condotte dall’Education Committee della Camera, l’estrema destra trumpiana ha intimidito i presidi delle università d’élite, ormai stretti tra l’incudine e il martello: se tentano di disciplinare gli studenti, ne scatenano la reazione; se lasciano fare, rischiano le ire della politica e la rivolta dei finanziatori. In genere ci si affida alla polizia, con esiti dubbi.
In Italia gli scontri tra reparti antisommossa e studenti sono stati interpretati da Giorgia Meloni come aggressione agli agenti. Ma diversi testimoni raccontano di cariche “a freddo” e manganellate immotivate a ragazzi e ragazzini.
Partiti e grandi media omettono o minimizzano, con una mancanza di coraggio che finirà per radicalizzare lo scontro: da una parte promette impunità ai manganellatori, dall’altra spinge i manganellati a reazioni muscolari, per esempio a intimidire senati accademici.
Molta parte della grande stampa contribuisce al peggio, propalando una narrazione nella quale gli studenti che protestano contro gli «acts of genocide» israeliani appaiono tutti sostenitori di Hamas, antisemiti, intrinsecamente violenti: inevitabile, questo implicito, sbaragliarli a manganellate.
A riprova “scientifica” dell’indegnità degli studenti, ecco quei sondaggi costruiti affinché le domande convoglino gli interpellati verso le risposte di cui la committenza ha bisogno per confermare la propria tesi.
Che la demoscopia spesso trucchi le carte è questione che andrebbe finalmente affrontata (non mancano sondaggisti di valore, Piepoli per esempio, che potrebbero illuminarci circa i metodi di alcuni colleghi). In ogni caso i sondaggi vanno interpretati.
Interpretare i sondaggi
Se negli Usa il 56 per cento degli universitari ebrei e il 52 per cento degli universitari musulmani si sentono «personalmente in pericolo» (indagine nazionale della Chicago University, febbraio scorso), potremmo ricavarne un’immagine disperante.
Ma l’impressione cambia quando scopriamo che il 62 per cento degli interpellati vorrebbe iniziative nelle università che promuovano dialogo ed empatia, o che l’antisemitismo e l’islamofobia tra gli studenti sono minori che nel resto della società (ma sono più intensi tra le minoranze studentesche radicali, di destra o di sinistra).
Se questo è vero, allora potremmo aspettarci che il “movimento”, dove esiste, dimostri di essere diverso dall’immagine astiosa dipinta dal sistema dei media e dei partiti. Lo dimostri con i fatti, innanzitutto rappresentando israeliani e palestinesi con rigore e rispetto della complessità.
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