- L’immagine della Turchia in Africa è quella del successo: un paese che ha saputo quadruplicare il suo PIL in 20 anni, come gli africani sognano da sempre
- Erdogan ha inserito l’Africa a pieno titolo nella politica neo-ottomana: Ankara si offre come snodo tra l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale.
- In Turchia non mancano i sostenitori del sogno della “Grande Turchia” ma Erdogan è un leader troppo pragmatico per cedere a tali fantasie.
Dieci anni fa i quotidiani turchi pubblicarono in prima pagina la foto dell’allora presidente della Repubblica, Abdullah Gul, mentre discuteva con un pescatore gabonese a piedi nudi nella sabbia e in riva al mare.
Quello stesso giorno molti accordi dovevano essere firmati tra i due paesi, durante l’ennesima missione turca sul continente.
Tra il 2000 e il 2010 la Turchia aveva già moltiplicato per più di dieci volte gli scambi commerciali e tale trend è continuato fino a oggi senza sosta. Circa trenta le nuove ambasciate aperte di 20 anni e più (oggi sono 44 su 54 stati): una presenza capillare non soltanto economica anche se prende l’avvio da progetti e investimenti.
Lavorare sulla reputazione
Fin dal volgere del millennio, Ankara ha pensato di aumentare la propria reputazione globale mediante una più forte proiezione sul continente, senza limitarsi – com’era stato fino ad allora – al solo Mediterraneo e al medio oriente. Oggi tale intuizione diviene utile se non necessaria: l’arco delle crisi (tra Siria, Grecia, Israele, Libia, Golfo e così via) hanno isolato il paese che si trova a dover affrontare molti rivali allo stesso tempo. Ecco perché l’Africa può divenire un retroterra cruciale sia politicamente che economicamente. Come nel resto del continente anche in nord Africa, malgrado la crisi libica che vede la Turchia impegnata militarmente, la compagnia nazionale Turkish Airways ha aperto voli da numerose capitali: per molti africani Istanbul è divenuto il vero hub verso oriente, concorrente diretto di Dubai.
L’immagine della Turchia in Africa è quella del successo: un paese che ha saputo quadruplicare il suo Pil in 20 anni, qualcosa che gli africani sognano da sempre. Camerun, Gabon, Congo, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Nigeria, Malawi, Togo, Benin, Sudan o Zambia: quasi tutti i paesi africani sono ammirati dalla performance economica turca che cercano di copiare. Un settore di grande rilancio è certamente quello una volta occupato dall’Italia e cioè i lavori pubblici e i grandi cantieri edili: oltre i cinesi, a fare strade, ponti e palazzi ci sono i turchi, soprattutto se si vuol spendere meno mantenendo la qualità.
I turchi sono anche riusciti nell’exploit di concludere accordi sulla pesca davanti alle coste occidentali del continente, cosa che all’Ue pare impossibile. Oggi gli scambi commerciali con il continente sfiorano i 30 miliardi di dollari: erano 5 nel 2003.
Nel 2005 Erdogan – allora premier – si reca per la prima volta sul continente vistando Pretoria e Addis Abeba oltre che Rabat e Tunisi. Nel 2007 ospita il summit dei paesi meno avanzati; nel 2008 organizza il vertice Turchia-Africa e fonda il centro di studi africani presso l’università di Ankara collegandosi a 42 stati del continente. Quello stesso anno la Turchia viene plebiscitata al Consiglio di sicurezza, grazie anche ai voti degli stati africani durante l’assemblea generale a New York. In cambio Ankara partecipa a molte missioni dei caschi blu sul continente (Unamid, Unmil, Unmis, Minusco, Unoci e così via) e invia le sue navi da guerra nel quadro delle operazioni anti-pirateria davanti alla costa somala. In quell’occasione saranno presi i primi contatti che porteranno poi i turchi a stabilirvi le basi militari. Molto delle relazioni turco-africane si basa sull’economia: dall’ingegneristica, alle costruzioni, all’agroalimentare, alla meccanica tessile, alle apparecchiature mediche e informatiche.
Imprenditori turchi attraversano tutto il continente organizzando continui business forum; la confindustria di Ankara crea legami ancora oggi molto solidi.
Tuttavia non c’è solo questo: progressivamente ci si sposta su dossier più politici, con un intreccio di relazioni diplomatiche ad alto livello.
Tale tendenza sarà rafforzata dopo il 2016, quando si compie la rottura con l’Europa a seguito del fallito golpe contro Erdogan. Intanto si è consolidata anche la cooperazione allo sviluppo, in particolare mediante la Fondazione per i diritti dell’uomo, delle libertà e dell’aiuto umanitario (Ihh), la stessa che ha organizzato la “flottilla” per Gaza. L’Ihh è presente in Africa già da metà degli anni Novanta soprattutto nel campo della sanità. Tale aiuto allo sviluppo, in cui è inizialmente forte l’influenza del movimento gulenista Hizmet, sarà poi riformato dopo la messa al bando della confraternita. Anche a livello culturale non si fa mancare una presenza attiva, con la fondazione di centri culturali e applicandosi al restauro di moschee e monumenti, di preferenza dell’epoca ottomana.
Erdogan ha inserito l’Africa a pieno titolo nella sua politica neo-ottomana e Ankara si offre come snodo tra l’Africa, il medio oriente e l’Asia centrale.
Si tratta di riannodare gli antichi fili dell’impero per ristabilire una presenza. Non a caso il presidente turco è stato l’unico leader mondiale a visitare Mogadiscio trascorrendovi anche la notte. In Somalia oggi i turchi hanno la più grande base militare all’estero, inclusa quella navale. Al contempo stanno spingendosi lungo la costa africana orientale per impiantare postazioni. Allo stesso modo intervengono attivamente in Libia e ancor più a occidente. Il fallimento dell’ingresso nell’Unione europea rende attrattiva per la Turchia tale alternativa che, oltre all’Africa, include i Balcani, il medio oriente, il Golfo ma anche l’Asia centrale e il Caucaso.
La via pan-turca
Prima del tentativo con l’Europa, ai tempi di Turgut Ozal e Suleyman Demirel, era stata studiata un’altra opzione, appena dopo la caduta del muro: quella pan-turca della relazione con i paesi di stirpe o discendenza turca.
Ankara aveva creato un’organizzazione regionale pan-asiatica con quei paesi che avessero in comune la medesima origine turcofona o turcomanna. Il relativo declino russo nell’aera aveva favorito tale iniziativa, che si è andata progressivamente arenando a causa del ritorno russo (con l’arrivo di Putin) ma soprattutto a causa delle ripetute crisi nell’area e del rifiuto delle nuove élite indipendenti di sottoporsi all’influenza turca dopo aver subito quella russa.
La recente ripresa della guerra tra Azerbaijan e Armenia, rappresenta una coda di quella strategia, in cui la Turchia si è di nuovo ritrovata a fare i conti con Mosca, che l’ha messa in mora malgrado avesse favorito la vittoria di Baku.
Giunto al potere nel 2002, Erdogan aveva rapidamente abbandonato tale politica preferendo la relazione con l’Europa. L’impossibilità di ottenere risultati in quella direzione, ha provocato in seguito la virata strategica “neo-ottomana”, incluse alcune delle scelte precedenti. In Turchia non mancano i sostenitori della tesi panturca (il sogno della “Grande Turchia” che si estende dai Balcani allo Xinjiang) ma Erdogan è un leader troppo pragmatico per cedere a tali fantasie.
Tuttavia non va sottovalutata una certa influenza del soft power turco, mediante scuole di lingua, collegi o istituti di cultura.
In questi ultimi vent’anni la Turchia ha fornito quasi 30mila borse di studio a studenti degli stati dell’Asia centrale. Inoltre in tutta la regione scuole e università finanziate da Ankara sono considerate tra le migliori.
Va tenuto conto che per gli stati dell’Asia centrale l’alleanza con la Turchia può essere considerata in funzione difensiva nei confronti del grande vicino orientale, la Cina. Per questo esistono buone ragioni geopolitiche che uniscono gli interessi di Russia e Turchia allo scopo di contenere Pechino.
D’altro canto la Cina è un concorrente agguerrito anche in Africa. Con il suo battagliero neo-ottomanesimo, e senza abbandonare del tutto il panturchismo, Erdogan ha ampliato di molto le ambizioni turche, stressando sia il bilancio pubblico (in crisi a causa della svalutazione della lira) sia l’esercito.
Le sue recenti mosse nel Mediterraneo, nel Caucaso e in Ucraina lo mettono in contraddizione sia con l’occidente che con la Russia.
È molto probabile che presto dovrà scegliere quali siano davvero le priorità più urgenti e definire una nuova politica delle alleanze meno aleatoria.
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