Stati Uniti: 69 per cento. Germania: 30 per cento. Italia: 0,9 per cento. Non si tratta di performance economiche, ma dell’export di armi occidentali verso Israele nel 2019-23. In Germania, il governo presieduto da Olaf Scholz vive l’ennesimo passaggio delicato: di recente il cancelliere ha ribadito l’impegno a esportare armi verso Israele.

Non tutti sono d’accordo: i Verdi si sono opposti in questi mesi; a giugno, il partito di Sahra Wagenknecht ha chiesto (fallendo) un blocco alle esportazioni. I cristiano-democratici hanno accusato Scholz d’incoerenza, per aver (pare) bloccato a settembre le licenze per l’export di alcune armi. Ma il dibattito non è solo politico: l’Ecchr (Centro europeo per i diritti umani e costituzionali) ha presentato diversi ricorsi in Germania per bloccare l’invio di armi a Tel Aviv.

Ne parliamo con Chantal Meloni, senior legal advisor di Ecchr e docente di diritto penale internazionale presso la Statale di Milano.

Quante armi la Germania esporta in Israele?

C’è poca trasparenza sul tema. Nel caso portato dal Nicaragua contro la Germania davanti alla Corte internazionale di giustizia, gli avvocati tedeschi hanno quantificato l’invio di armi nel 2023 a 326 milioni di euro, di cui 85 milioni sarebbero per dispositivi processati in Israele e poi restituiti a Berlino. Va detto che in Germania l’export dipende dal tipo di arma, a seconda che sia “da guerra” o “non da guerra”. In quest’ultima categoria rientrano equipaggiamenti militari e armamenti in teoria classificati come difensivi, ma utilizzabili anche per operazioni offensive. Per questo crediamo che la differenza posta dalla normativa tedesca non sia in linea con il diritto internazionale.

E voi quali avete provato a bloccare?

Il primo ricorso di Ecchr è stato alla Corte amministrativa di Berlino ad aprile 2024, contro l’invio di armi pesanti e in particolare del “matador”, un bazooka anti-tank, probabilmente usato dall’Idf a Gaza per demolire edifici. I giudici, dopo aver consultato il governo, hanno detto che non c’era nulla da bloccare: le licenze erano state concesse, l’invio era avvenuto. Abbiamo quindi chiesto di essere informati su eventuali nuove licenze per l’invio di armi pesanti tedesche. I giudici stavolta hanno ritenuto la richiesta prematura, non essendoci (pare) licenze pendenti. La scorsa estate ci siamo rivolti anche alla Corte di Francoforte, competente sull’export delle armi “non da guerra”. A settembre riceviamo una comunicazione dai giudici: ci avvertono che la nostra causa potrebbe costarci molto, essendo i potenziali fornitori di armi moltissimi. Spese insostenibili per la nostra organizzazione. Ancor prima di poter reagire, il Tribunale ha comunque rigettato la richiesta: la considerava generica, paragonandola a una richiesta di accesso agli atti. Ma non lo è, perché è nell’interesse specifico dei nostri assistiti.

Chi sono i vostri assistiti?

Proteggiamo le loro identità per la loro sicurezza. Sono civili residenti a Gaza, con cui siamo in contatto diretto tramite le organizzazioni palestinesi per i diritti umani nostre partner (Al-Mezan, Palestinian Center for Human Rights – Pchr – e Al-Haq). L’unico noto al pubblico è Abdalraham Jumaa, 32 anni, che è stato intervistato più volte in Germania. Ha perso la moglie (avvocatessa del Pchr), una figlia, quattro fratelli e i genitori in un bombardamento israeliano.

Quanto è grave la responsabilità dello Stato tedesco?

Da Merkel in poi, la sicurezza di Israele è parte della raison d’Etat tedesca. Ma se ci sono gravi violazioni del diritto internazionale umanitario (o addirittura un rischio di genocidio al vaglio dalla Corte internazionale di giustizia), il diritto prevale sulle dottrine politiche. Qualcuno per l’export di armi evoca il termine boicottaggio, ma dal mio punto di vista non si tratta di boicottaggio: è rispetto del diritto internazionale.

Si parlava di licenze sospese a settembre…

C’è stata un po’ di (deliberata) confusione sul tema da parte di molti governi, Italia inclusa. Ma ora Scholz ha detto chiaramente: «Non abbiamo smesso di inviare armi, anzi: ora ne esporteremo altre». La Bild ha raccontato che la ministra degli Esteri Annalena Baerbock e altri suoi colleghi avrebbero bloccato le vendite in questi mesi. Quindi, anche il governo tedesco ha diverse sensibilità sulle implicazioni di tali export. Ma si continua a supportare una guerra con così tante vittime civili, in cui si viola ogni giorno il diritto internazionale umanitario.

Ritiene che l’Onu e il diritto internazionale siano in crisi?

Non è tanto, o non solo, il diritto internazionale a essere in crisi. Lo sono i suoi meccanismi di attuazione, inclusa l’architettura complessiva dell’Onu. Nulla di nuovo: c’è un problema di mancata implementazione delle risoluzioni dell’Assemblea generale, ma anche di paralisi del Consiglio di sicurezza a causa di veti incrociati. Sulla Siria i veti provenivano da Russia e Cina; mentre gli Stati Uniti sono capaci di bloccare tutto ciò che riguarda Israele. Nell’Assemblea generale assistiamo invece a una spaccatura tra “Occidente” e “Sud globale”. E oggi molti Stati africani o dell’America Latina difendono i valori universali dell’Onu meglio di alcuni paesi europei.

E le accuse di antisemitismo al segretario generale dell’Onu Guterres?

Tel Aviv in questi decenni ha sempre attaccato l’Onu: un bersaglio è il Consiglio dei diritti umani, che ha sempre denunciato le violazioni del diritto internazionale da parte d’Israele in Cisgiordania (come le colonie illegali) così come a Gaza. Ma ora la situazione è molto tesa, perché è più alta la posta in gioco. Israele oggi taccia di antisemitismo il segretario generale, l’Onu, la Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia e chiunque osi sottoscrivere report che documentino i suoi crimini in Palestina. Un’accusa infondata e infamante; ed è grave usarla come scudo rispetto a violazioni del diritto internazionale.

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