- Il cessate fuoco fra Hamas e Israele ha restituito a Gerusalemme una calma fragile. A poche ore dall’accordo sono ricominciati gli scontri e il ritmo della vita quotidiana è segnato da una diffidenza palpabile tra gli abitanti, traumatizzati dalla violenza intercomunitaria.
- «Si può dire che lo status quo per l’area del Monte del tempio/Spianata delle Moschee sia stato compromesso del tutto, e sia Washington sia l’Europa sono riluttanti nell’affrontare questo aspetto», spiega Daniel Seidemann.
- L’amministrazione americana ha ormai declassato l’importanza del conflitto e non è più disposta a investire sul processo di pace un capitale politico paragonabile al passato.
Il cessate fuoco concordato da Hamas e Israele dopo undici giorni di combattimento ha restituito a Gerusalemme una calma fragile. A poche ore dall’accordo sono ricominciati gli scontri tra polizia israeliana e palestinesi e il ritmo della vita quotidiana ora è segnato da una diffidenza palpabile tra gli abitanti di Gerusalemme, traumatizzati dalla violenza intercomunitaria esplosa nelle città miste di Israele.
Ma sia i politici israeliani sia la comunità internazionale non sembrano orientati a risolvere le cause profonde che hanno provocato l’ultimo ciclo di scontri. Secondo l’avvocato israeliano Daniel Seidemann, «il panorama che abbiamo davanti è lunare». Arrivato cinquanta anni fa dagli Stati Uniti, Seidemann ha passato gli ultimi trenta a seguire gli aspetti geopolitici dello status di Gerusalemme.
Grazie alla sua conoscenza della realtà sul campo e degli aspetti legali del conflitto, oggi è un punto di riferimento per diplomatici e negoziatori internazionali impegnati a decifrare le posizioni dei molti attori coinvolti. «Si può dire che lo status quo per l’area del Monte del tempio/Spianata delle Moschee sia stato compromesso del tutto, e sia Washington sia l’Europa sono riluttanti nell’affrontare questo aspetto», spiega.
Inoltre, «la questione degli espropri a Sheikh Jarrah dovrebbe tornare davanti alla Corte suprema tra un mese e non si intravvede alcuna prospettiva per riavviare un processo politico significativo. Nessuno sa come affrontare questi nodi, ma non spariranno nel nulla».
Lo status quo violato
Lo status quo a cui fa riferimento Seidemann è un accordo sulla gestione dei luoghi sacri che si trovano nell’area indicata dai musulmani come Al Haram Al Sharif e dagli ebrei come Monte del tempio. L’intesa di origine ottomana è stata rinnovata nel 1967 da Israele e dal regno di Giordania, che è il custode ufficiale del sito.
Secondo l’accordo, la gestione della spianata è affidata ai musulmani, che sono anche gli unici autorizzati a pregare in quell’area. I non musulmani possono visitare il compound ma senza compiere atti devozionali, e la polizia israeliana dovrebbe mantenere la sicurezza garantendo che il divieto di preghiera venga rispettato.
Gli scontri delle ultime settimane si inseriscono nella scia di un’erosione dello status quo in corso da anni. Seidemann crede «che lo status quo non esista più» e considera «una violazione gigantesca» gli episodi sempre più frequenti di gruppi di ebrei che durante le visite alla spianata riescono a pregare.
«La polizia che fino a cinque anni fa agiva da moderatore ora è un elemento destabilizzante in linea con il Movimento del Monte del tempio». Il termine indica gruppi di attivisti ebrei che puntano a sovvertire lo status quo e affermare la sovranità ebraica del sito.
«Un movimento che nel 1967 era considerato una frangia estremista, ma oggi probabilmente gode della maggioranza all’interno del governo ed è stato importante nel determinare un cambiamento di sensibilità e strategia politica», spiega Seidemann.
Secondo l’esperto questa alterazione non è stata recepita come una questione urgente da parte della comunità internazionale, ma è vista come una minaccia dai giovani palestinesi. «I musulmani sentono di star perdendo la loro Gerusalemme, e che Israele sta cercando di restringere i loro spazi minando il loro senso di identità. Non è un caso che gli scontri all’inizio del Ramadan siano partiti dalla porta di Damasco (uno degli accessi più utilizzati per raggiungere la moschea di Al Aqsa, ndr)».
Gli sfratti
L’altro elemento radioattivo è la questione degli sfratti nel quartiere di Sheikh Jarrah. «In passato abbiamo visto casi di famiglie palestinesi prese di mira dal governo in collusione con i coloni», spiega Seidemann, «ma quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah e nel quartiere di Silwan non ha precedenti dal 1967. Da allora Israele ha insediato 225mila coloni a Gerusalemme est. Per farlo ha espropriato terre private, per lo più di proprietà palestinese, e ha riconvertito terreni statali. Ma nessun palestinese è stato costretto ad andarsene. Ora invece stiamo parlando di un’espulsione su larga scala che coinvolge molte centinaia di abitanti di Sheikh Jarrah e Silwan. Israele non ha mai fatto nulla di simile».
Le espulsioni si basano su una legge del 1970, che consente agli ebrei di reclamare le proprietà perse durante la guerra del 1948, che ha sancito la nascita di Israele e la divisione della città.
Ma non esiste nessun provvedimento legale che consenta ai Palestinesi lo stesso diritto rispetto ai beni che si trovano a Gerusalemme ovest. «A Sheikh Jarrah in particolare», continua Seidemann, «molte famiglie a rischio di espulsione sono rifugiati che sono stati costretti a lasciare Gerusalemme ovest nel 1948, e le case in cui abitano sono state costruite per loro dalle Nazioni unite. Inoltre, nessuno dei coloni che reclamano il diritto a recuperare questi beni ha una connessione di alcun tipo con i proprietari ebrei originari».
Tirando fuori una cartina di Gerusalemme, Seidemann mostra che la geografia di questa storia è a sua volta molto importante. «Le espulsioni fanno parte di una policy governativa in atto dal 2005, che prevede di circondare la città vecchia di Gerusalemme con una serie di insediamenti e di trasformare quest’area in un parco tematico a sfondo pseudo-biblico».
Questi passaggi sono in linea con le tendenze che caratterizzano la società e la politica israeliane degli ultimi decenni. «Stiamo vendendo una radicalizzazione religiosa e un’occupazione sempre più aggressiva», continua Seidemann, sottolineando che la violazione dello status quo e le espulsioni a Gerusalemme est sono due questioni particolarmente incendiarie.
«Vanno al cuore dell’identità di entrambi i popoli. Sia gli ebrei che i Palestinesi definiscono se stessi e il proprio senso di identità nazionale attraverso il legame con Gerusalemme, ed entrambi hanno un passato traumatico in quanto rifugiati».
Questi due temi centrali si stagliano su uno sfondo privo di processo politico, al quale molti stati arabi hanno voltato le spalle e da cui anche gli Stati Uniti si stanno distaccando. Nonostante la raffinata diplomazia con cui il presidente Biden si è mosso per favorire un cessate il fuoco, la situazione politica sia in Israele che dal lato palestinese non consente di rilanciare i negoziati, ed è ormai evidente che l’amministrazione americana abbia declassato l’importanza di questo conflitto.
«Li capisco, è un passaggio logico. Hanno priorità interne molto più pressanti e il capitale politico che hanno intenzione di investire qui è molto inferiore al passato», commenta Seidemann, aggiungendo un aneddoto: «Ho chiesto a un funzionario americano di alto profilo, “avete idea di quanto l’Europa stia aspettando una mossa da parte vostra?” La risposta è stata: “Digli di non aspettare”». Ieri il segretario di Stato, Antony Blinken, è partito per una missione diplomatica con le parti coinvolte. Incontrerà Bibi Netanyahu a Gerusalemme, poi Abu Mazen a Ramallah, al Sisi al Cairo e infine re Abdullah ad Amman
La diplomazia europea
Anche l’Europa però può fare molto, unita o a livello dei singoli stati. «Il Gruppo di Monaco composto l’anno scorso da Francia, Germania, Giordania ed Egitto per riprendere le consultazioni è un ottimo esempio», dice Seidemann. «La mia speranza è che nelle prossime settimane si riparta da una piattaforma simile per affrontare questi temi, e la presenza degli Stati Uniti è essenziale ma non c’è bisogno che siano loro a guidare l’iniziativa».
Mentre la diplomazia arranca ci sono altri aspetti su cui lavorare. Per Seidemann il conflitto legato a Gerusalemme non è di natura religiosa ma può prenderne le sembianze, e negli ultimi trent’anni è molto cresciuta l’influenza di chi utilizza la fede in modo pericoloso – dal Movimento del Monte del tempio ai cristiani evangelici.
«Una delle cose che si possono fare oggi è lavorare con le comunità religiose per favorire la coabitazione di tutte le tradizioni in questo piccolo spazio». Per questo Seidemann sta partecipando a una serie di iniziative su base religiosa con l’obiettivo di marginalizzare gli elementi radicali delle diverse tradizioni e supportare i moderati ai quali è chiaro che la città deve parlare in modo corale.
Non per rimpiazzare un processo politico, ma per integrare gli effetti geopolitici positivi della presenza interreligiosa a Gerusalemme. Da ebreo laico, Seidemann crede che questa sia la dimensione più trascurata del conflitto. «I negoziati sono inefficienti perché lasciano fuori questioni di grande importanza per gli abitanti della città, alienando le persone di fede. Questo è il posto in cui le placche tettoniche della civilizzazione ebraica, cristiana e musulmana si scontrano da secoli. E i terremoti sono rari. Gerusalemme sa come tenere insieme narrative contrastanti, è quando arrivano i piromani e giocano con il fuoco che si innesca la violenza».
© Riproduzione riservata