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L’ex procuratore della Corte dei Conti Raffaele De Dominicis ha denunciato il lobbista Pasquantonio e il critico d’arte Claudio Strinati. Al centro delle accuse un quadro attribuito al Veronese di proprietà del magistrato
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Secondo De Dominicis i due si sono accordati per restituirgli – dopo un restauro concordato tra i tre – una copia. I due negano: «Mai truffato nessuno, il dipinto è quello»
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Dalle carte emerge il tentativo dei tre di restaurare il quadro, attribuirlo al maestro Veronese e venderlo all’estero per poi dividersi i proventi. Ma qualcosa è andato storto.
Il commercialista Sergio Pasquantonio, amico di pezzi grossi della magistratura e della politica, da Nicola Zingaretti alla famiglia Angelucci, dal ministro Lorenzo Guerini al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, tiene a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Ma non sempre vi riesce.
L’ex procuratore capo della Corte dei conti Raffaele De Dominicis, suo grande amico per anni, qualche tempo fa ha infatti denunciato alla procura di Roma il potente e sconosciuto lobbista, insieme a un importante critico d’arte, l’ex soprintendente del polo museale romano Claudio Strinati.
Al centro della tenzone c’è un quadro del Cinquecento di proprietà del giudice che raffigura Venere e Adone, e che una perizia di Strinati attribuisce nientemeno che a Paolo Caliari, detto il Veronese.
Un dipinto che secondo una scrittura privata, di cui Domani ha ottenuto copia, i tre amici volevano vendere all’estero («a Vienna o Londra») per poi dividersi gli eventuali proventi. Secondo il procuratore contabile, i suoi soci in affari una volta restaurata l’opera non gli avrebbero restituito l’originale, lo avrebbero raggirato tentando di rifilargli una copia senza valore.
Non solo: Pasquantonio e Strinati avrebbero contemporaneamente «esportato illecitamente l’opera d’arte», «violando tutti i patti e tutti gli accordi assunti» con il De Dominicis «che, apprese dette manipolazioni dal dottor Pasquantonio, si ritiene beffato fin dal primo momento».
Venere e Adone
La denuncia dell’alto magistrato ormai in pensione è sulla scrivania del sostituto Nicola Maiorano, pm della procura di Roma delegato alla tutela del patrimonio artistico. L’indagine langue da tempo, eppure le possibili conclusioni sembrano risicate: o De Dominicis è impazzito e mente, e dunque è imputabile di calunnia nei confronti degli ex sodali, oppure il lobbista e il critico – anche lui habitué delle cene in terrazza di Pasquantonio – come novelli gatto e la volpe hanno truffato il procuratore. Tertium non datur.
Al netto degli eventuali rilievi penali ancora da valutare, la faccenda ha tratti surreali e merita di essere raccontata dal principio. È il 1998 quando De Dominicis si accorda per comprare il quadro con il colonnello dell’aeronautica Aurelio Brozzi, che ha sua volta anni prima aveva avuto mandato a vendere la Venere da un nobiluomo veneto.
Nel 2005 il pilota comandante muore, e De Dominicis dopo pochi mesi di brevi dispute con gli eredi, ottiene la proprietà del quadro. L’Istituto centrale per il restauro fa delle indagini di polizia di routine, e nel 2006 verga un rapporto in cui l’opera viene definita come «aderente ai modi della pittura veronesiana: l’individuazione stilistica è difficile per la presenza di estese ridipinture». Riconsegnato a De Dominicis, il quadro finisce in una caveau della banca, poi nella sede del palazzo Barberini.
L’attribuzione
Nella primavera del 2013 la Venere nuda torna ad agitare le notti del capo della magistratura contabile italiana. Il museo Barberini decide infatti «per mancanza di fondi pubblici» di ridare il quadro al proprietario che lì lo conservava. È allora che il giudice si convince a venderlo.
È sicuro sia un capolavoro del Veronese che vale molti soldi, ma ha due problemi prima di metterlo all’asta. In primis, sostenere un restauro fatto bene costa molto. In più, deve trovare un grande esperto che certifichi definitivamente che il pittore è proprio il maestro delle Nozze di Cana: nessun esperto che aveva incrociato il quadro si era mai spinto a dirlo con certezza.
Assiduo delle cene sulla terrazza di Pasquantonio, il giudice chiede così al vecchio amico un consiglio sul da farsi. Il lobbista gli suggerirsi di affidarsi al critico Strinati, che a sua volta conosce da lustri.
L’esperto ottiene così il mandato a curare la pratica per ottenere dal ministero dei Beni culturali «l’autorizzazione a trasferire l’opera pittorica in ambito europeo ai fini della sua esposizione in musei, gallerie e altre qualificate sedi», si legge nell’atto mandatario, mentre il dipinto viene spedito nel laboratorio di Carla Mariani, esperta in restauro e amica di Strinati.
La speranza dei tre sembra chiara, stando ad altri documenti visionati: vendere il quadro «al prezzo più conveniente» e poi dividersi in parti quasi uguali i guadagni.
Il 14 aprile 2015 il ministero del Beni culturali dà il via libera all’esportazione. L’attestato pubblico però non cita come autore dell’opera il Veronese, ma genericamente una mano «della Scuola Veronese». Il valore ritenuto «congruo» dagli esperti del Mibac è di soli ottomila euro. Una doccia fredda per il giudice.
Per sua fortuna, Strinati non è d’accordo con gli esperti del Mibac: pochi mesi dopo il critico e divulgatore, celebre anche per i suoi programmi in Rai, redige una perizia che indica Il Venere e l’Adone dell’amico giudice «come opera certa di Paolo Veronese, per caratteri di stile e iconografia... confermo peraltro la datazione del dipinto alla giovinezza del sommo maestro».
Ora, grazie alla relazione di un esperto di chiara fama, il quadro di De Dominicis può essere piazzato a qualche appassionato in giro per il mondo per una barca di soldi. Forse anche un milione. Altro che gli ottomila euro ipotizzati da quei fessi del ministero.
Il giallo delle quote
A fine 2016 però l’idillio tra il lobbista, il giudice e il professore s’incrina di botto. Chiamato dalla restauratrice per ritirare il quadro ormai risanato, De Dominicis ha un mancamento: non riconosce più la sua Venere.
Le sue braccia gli sembrano ingrossate, i dettagli diversi. Grida al complotto, e teme che i suoi amici lo abbiano imbrogliato. Tenendosi il presunto Veronese e rifilandogli una copia. Per anni tenta invano di ottenere quello che crede sia il maltolto, ma senza ottenere soddisfazione. Si rifiuta però di ritirare il quadro, considerandolo un falso. «Solo fantasie offensive», gli risponde l’avvocato delle controparti.
Si arriva all’oggi, e all’inchiesta della procura ancora coperta. Pasquantonio, sentito al telefono, nega tutto. «Una cosa incredibile. Raffaele dice che ci siamo tenuti il suo quadro! Ma quando mai! Lui ci disse che voleva restaurarlo, e Claudio, che è una persona perbene, gli ha presentato una restauratrice. Io non so altro». Il commercialista, pure definito da Piero Amara uno dei «vecchi» della fantomatica loggia Ungheria («farò denuncia per calunnia contro di lui», la sua replica) confuta anche il fatto che tra i tre ex commensali ci sarebbe stato un accordo economico in caso di vendita della “Venere”. «È falso. Se un amico mi chiede un piacere non è che mi prendo i soldi».
Domani ha però letto una scrittura privata tra De Dominicis, Pasquantonio e Strinati in merito al «riconoscimento dei diritti di compartecipazione alle quote corrispettive derivanti dall’eventuale vendita di un antico dipinto attribuibile al pittore Paolo Caliari».
Dove si segnala, non solo che il giudice avrebbe dato mandato al lobbista «perché approntasse nell’interesse di tutti le anticipazioni delle spese di restauro e all’organizzazione generale in vista della vendita» all’asta, ma pure la divisione degli eventuali profitti: 40 per cento per De Dominicis, 30 a Strinati e 30 a Pasquantonio.
Il critico, contattato, ammette di conoscere quella bozza di scrittura privata. «Le confermo che esiste, però le dico una cosa che le suonerà strana: non sono sicuro che le firme siano vere. Non ho una memoria precisa, ma secondo me le ha messe De Dominicis. Non sono certo però».
Possibile che il critico non si ricordi se ha firmato o meno un contratto con certezza? «Guardi, credo che la firma non sia la mia, ma non sono certo di non aver firmato nulla», la sua risposta dadaista. Il critico conferma che ha vistato nel 2015 una perizia in cui attribuisce l’opera al Veronese senza se e senza ma. Ma quando gli si chiede se avalla ancora oggi quella attribuzione, dice: «Preferisco non rispondere alla sua domanda, c’è un’inchiesta in corso. Restiamo ai fatti». Dunque, alle accuse di De Dominicis.
«Io le confuto tutte, naturalmente. Non posso dire altro perché i pm stanno lavorando, non so nemmeno se sono indagato, ma c’è stata mesi fa un’ispezione tecnico-giuridica dei carabinieri e degli esperti chiamati dalla procura per fare una valutazione del quadro. Ero presente: non credo che i carabinieri pensino che abbiamo manomesso il dipinto. Il quadro è quello. Forse a Raffaele non è piaciuto come è stato restaurato. Ma io che ci posso fare?».
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