Ci sono nel mondo altri quattro dissidenti meno noti che meritano attenzione. Ilham Tohti, Ahmed Mansoor, Sonia Guajajara, Bobi Wine: ecco chi sono e soprattutto che cosa li accomuna
- Le loro società sono impantanate nella corruzione e nelle reti di potere, ma loro fanno breccia con richieste essenziali che risuonano.
- E cioè: il diritto di dire ciò che si pensa; il diritto a un ambiente sano; il diritto di protestare pacificamente; il diritto di eleggere i propri rappresentanti e che il proprio voto sia considerato.
- È la semplicità del loro messaggio che rende questi dissidenti efficaci. Questa semplicità può catalizzare un sostegno diffuso, e le persone politicamente consapevoli lo sanno. Ma ciò che vale per tutti loro è che non possono fare altrimenti.
Quando l’attivista dell’opposizione Aleksej Navalny è tornato in Russia a gennaio, nonostante là fosse stato avvelenato, in tanti si sono chiesti perchè. Sapeva che sarebbe stato arrestato e presto è stato condannato a più di due anni di carcere. Perché mettersi in una posizione simile? Navalny ha dimostrato di avere un tipo raro di determinazione e coraggio.
Raro, ma non unico. Se ci guardiamo intorno nel mondo, ci sono persone coraggiose in altri contesti che corrono rischi simili. Anche questi dissidenti, meno conosciuti a livello mondiale, meritano la nostra attenzione. Ognuno di questi “altri Navalny” ha una storia particolare. Alcuni hanno ambizioni politiche. Altri si concentrano nell’offrire un aiuto alle vittime di oppressione oppure nel fare pressioni per riforme sui diritti umani. Qualcuno inizia con l’attivismo e finisce per cercare una carica politica. Eppure ciò che questi dissidenti hanno in comune è una singolare dedizione alle proprie cause, che ci lascia a bocca aperta.
Ilham Tohti
La Cina ha tanti eroi viventi. Tra questi c’è Tothi, un economista di etnia uigura critico del governo. Di fronte agli abusi e alla discriminazione delle autorità nei confronti della popolazione uigura nella regione dello Xinjiang, Tohti è stato la voce della ragione e del decoro. Ha proposto soluzioni pratiche alla discriminazione economica degli uiguri e ha parlato della necessità di un sistema legale indipendente per contrastare gli abusi dello stato.
Tohti ha sollecitato un dibattito pacifico tra studenti, studiosi e la popolazione più in generale. Era il tipo di riformatore pacifico che le autorità avrebbero dovuto accogliere, visti i timori spesso dichiarati di disordini da parte dei radicali nella regione. Ma nel 2014 Tothi è stato condannato all’ergastolo con false accuse di “separatismo” dopo un processo ingiusto e assurdo.
Tohti non ha taciuto nella miniera di carbone dello Xinjiang. Negli anni successivi alla sua condanna il governo cinese ha intensificato la repressione nella regione, detenendo arbitrariamente un milione di uiguri e di altri musulmani turchi in “campi di rieducazione” ed espandendo i suoi sistemi automatizzati di sorveglianza di massa a estremi oscuri.
Il governo cinese vuole che il mondo dimentichi Tohti. Non è successo. Il Parlamento europeo gli ha conferito il prestigioso Premio Sacharov nel 2019 e la diaspora degli uiguri ha tenuto Tohti e gli abusi della Cina sotto gli occhi di tutto il mondo.
Ahmed Mansoor
Noto attivista per i diritti umani negli Emirati arabi, Mansoor è stato condannato a 10 anni di carcere nel 2018 con accuse interamente legate alle sue dichiarazioni sui diritti fondamentali. Sì: un decennio in prigione per non aver detto nient’altro che la verità.
Come se anche le autorità degli Emirati Arabi Uniti si rendessero conto di quanto fosse imbarazzante, il processo e l’appello di Mansoor si sono svolti a porte chiuse. Il governo si è rifiutato di rendere pubblici il documento di accusa e le sentenze del tribunale.
Il caso ricorda una frase di 1984 di Orwell: «La libertà è libertà di dire che due più due fa quattro». L’insistenza sui semplici fatti richiede coraggio nei luoghi in cui le autorità repressive sembrano coscienti della frase successiva di Orwell: «Se questo è concesso, tutto il resto segue».
Come ha detto Khalid Ibrahim, direttore esecutivo del Gulf Centre for Human Rights, «Ahmed Mansoor sapeva di rischiare la prigione quando si è dato alla protesta contro le violazioni dei diritti umani nel suo paese e nella regione più ampia, eppure lo ha fatto con coraggio e dedizione. Ecco perché le autorità degli Emirati Arabi Uniti lo hanno punito così duramente».
Sônia Guajajara
L’attivista brasiliana è diventata una forza potente nella causa dei diritti degli indigeni e dell’ambiente, in forte opposizione al governo populista di Jair Bolsonaro per le sue politiche disastrose che hanno contribuito alla rapida distruzione dell’Amazzonia.
Qualcuno potrebbe non mettere a confronto un dissidente della Russia, della Cina o degli Emirati Arabi con uno di un un paese più democratico come il Brasile. Ma l’attivismo ambientale, compreso quello relativo ai diritti delle terre indigene, lì è incredibilmente pericoloso. Secondo la Pastoral Land Commission, un’organizzazione non profit che aiuta le vittime, nel decennio scorso più di 300 persone sono state uccise in Brasile in conflitti legati all’uso della terra e delle risorse negli stati amazzonici, molti dei quali assassinati per mano di chi è implicato nella deforestazione illegale.
Nata in un villaggio della foresta pluviale del popolo Guajajara, Sônia è diventata la prima indigena in Brasile a candidarsi per un ufficio esecutivo federale, mirando alla posizione di vice presidente. Di certo conosce i gravi rischi che deve affrontare dopo l’uccisione di attivisti della sua stessa etnia. Eppure continua a far sentire la sua voce, in particolare contro le violente reti criminali che stanno dietro a questi omicidi.
Bobi Wine
Il musicista ugandese e leader dell’opposizione Robert Kyagulanyi, meglio conosciuto con il nome d’arte Bobi Wine, ha avuto l’ardire di sfidare il presidente da cinque mandati, Yoweri Museveni, per la carica più alta del paese (anche se Museveni detiene tutte le leve della violenza di stato e i suoi scagnozzi non hanno paura di usarle).
La storia di Wine quasi implora di essere trasformata in film. Proviene da uno slum di Kampala e ha saputo esprimere le frustrazioni di una nuova generazione prima nella sua musica e poi nella politica. «Mi sono reso conto che non ci ci salverà nessuno», ha detto in un’intervista a Rolling Stone. «Dobbiamo farlo da soli». È diventato la voce dei giovani ugandesi stanchi della corruzione dilagante di pochi e del profondo impoverimento di molti.
È stato arrestato innumerevoli volte e torturato per aver esercitato il suo diritto fondamentale alla libertà di parola. Il fatto che Wine abbia dovuto fare una campagna con indosso un giubbotto antiproiettile e un elmetto la dice lunga sulla politica dell’Uganda, e anche sulla dedizione di Wine.
Nelle settimane che hanno preceduto le elezioni di gennaio, Human Rights Watch ha documentato «uccisioni da parte delle forze di sicurezza, arresti e percosse di sostenitori e giornalisti dell’opposizione, l’interruzione di manifestazioni e la chiusura di Internet». Museveni è stato dichiarato vincitore e Wine è stato messo agli arresti domiciliari. Wine continuerà a combattere, questo è certo.
Cosa li accomuna
Questi dissidenti vengono tutti da contesti diversi e lavorano in contesti diversi. C’è un valore però nel mettere insieme esempi come questi, per aiutarci a capire meglio cosa rende tali leader eccezionali.
Lavorando sui diritti umani e seguendo dissidenti come quelli presentati - a volte, anche avendo la fortuna di lavorare con loro - ho scoperto una caratteristica costante: la certezza di visione e di obiettivo.
Vent’anni fa ho chiesto ad Anna Politkovskaya, giornalista investigativa russa e difensore dei diritti umani, come riusciva a continuare a fare quello faceva. Per i suoi resoconti sugli abusi delle forze russe nella seconda guerra cecena i militari l’hanno arrestata, picchiata e sottoposta a una finta esecuzione.
«Come fa a portare avanti le sue indagini?», le ho chiesto.«Sicuramente sa che le intimidazioni dei militari non sono solo una farsa, e che la prossima volta potrebbero effettivamente ucciderla, no?».
«Certo», ha risposto. Non poter fare altrimenti: i crimini dovevano essere resi noti e lei era nella posizione per farlo. Conosceva i rischi.
Politkovskaya è stata avvelenata su un aereo nel 2004, come è successo a Navalny l’anno scorso. È sopravvissuta all’avvelenamento, ma le hanno sparato mortalmente di fronte al suo appartamento nel 2006.
Non credo che i difensori dei diritti umani come Politkovskaya abbiano alcun desiderio di diventare martiri. Sentono profondamente la gravità della questione e diventano posseduti dall’importanza storica di ciò che fanno.
Tutti questi dissidenti vedono ciò che è fondamentale in un modo diverso da chi li circonda, o in un modo in cui chi è loro intorno non riesce a esprimere a parole. Le loro società sono impantanate nella corruzione e nelle reti di potere, ma loro fanno breccia con richieste essenziali che risuonano: il diritto di dire ciò che si pensa; il diritto a un ambiente sano; il diritto di protestare pacificamente; il diritto di eleggere i propri rappresentanti e che il proprio voto sia considerato. Non chiedono il mondo, ma quello che centinaia di milioni di persone in tutto il mondo hanno già e spesso danno per scontato.
È la semplicità del loro messaggio che rende questi dissidenti efficaci. Questa semplicità può catalizzare un sostegno diffuso, e le persone politicamente consapevoli lo sanno. Ma ciò che vale per tutti loro è che non possono fare altrimenti.
Le ragioni dell’anima
La maggior parte delle persone guarda il ritorno di Navalny in Russia e lo giudica irrazionale. Ma un dissidente vede l’irrazionale come una chiamata. E se “razionale” significa consenso sociale, allora queste sono le strade “irrazionali”. Per i dissidenti, invece, sono le autorità a essere irrazionali. I dissidenti rimangono testardi anno dopo anno fino a quando, con un duro lavoro e con fortuna, un numero sempre maggiore di persone inizia a considerare razionale l’irrazionale. Assistiamo allora a una vittoria in un’aula di tribunale, o a un risultato elettorale fondamentale, o forse anche a qualcosa di monumentale come la fine di un sistema oppressivo.
Purtroppo più spesso accade che siano le autorità a schiacciarli. Il fatto è che la maggior parte dei dissidenti non finisce per persuadere le proprie società a cambiare. Molti dissidenti affrontano un destino orribile che forse vedono venirgli incontro. Non è che non abbiano a cuore la propria vita; è che vogliono che la propria vita sia importante.
Insieme ai miei colleghi ho avuto il privilegio lo scorso anno di intervistare a distanza a un difensore dei diritti umani incarcerato in Kirghizistan, Azimjon Askarov, pochi mesi prima che morisse, in prigione, perché le autorità gli hanno negato cure mediche adeguate. Tra le tante cose profonde che ha detto, dopo dieci anni di ingiusta detenzione, ricorderò soprattutto questa: «Anche se sono in prigione, sento che la mia anima è libera».
Molti penseranno che è una cosa irrazionale. Ma dentro a questa visione del mondo, che incomincio a capire e condividere, ha senso. Le autorità repressive continuano a cercare di farci impazzire. Ma ci aggrappiamo a ciò che è reale, almeno nell’unico luogo che controlliamo e che non possono raggiungere: l’anima.
Troviamo il coraggio e la visione dei dissidenti stimolanti, ma anche incomprensibili. Facciamo fatica a capire cosa li spinge a scegliere una strada così pericolosa. Ma è proprio così: la consideriamo una scelta coraggiosa. Per loro non c’è altra scelta.
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