Poco dopo le 11 di un mercoledì mattina della primavera scorsa guardavo un cartone animato con tre bambini, mentre la loro mamma parlava, nella stanza accanto, con l’agente di libertà vigilata. La supervisione comunitaria può essere un processo intimo e nel corso di diversi mesi di ricerca sul campo, sono finito in tanti salotti simili, ad ascoltare tante conversazioni simili. La pioggia inondava i campi arati oltre l’autostrada mentre i bambini fissavano lo schermo davanti ai loro occhi, apparentemente non turbati dalla presenza di estranei armati nella loro casa. «Ha assunto sostanze stupefacenti?», ha chiesto l’agente in tono quasi confessionale, come confidando un segreto. La donna ha abbassato lo sguardo, senza proferire risposta, e ha pianto sommessamente. Era appena risultata positiva al fentanyl, una sostanza che ha sconvolto il panorama dell’abuso di droghe negli Stati Uniti

L’epidemia degli oppioidi è scoppiata a partire dall’eccesso di offerta di antidolorifici da prescrizione alla fine degli anni Novanta e si è intensificata con nuove fonti di eroina dal 2010. Oggi il fentanyl è il re delle sostanze. È una droga prodotta principalmente dai cartelli messicani, a partire da sostanze chimiche cinesi, e trafficata nelle principali città degli Stati Uniti. È dappertutto ed è facile capire perché. Il fentanyl è all’incirca cinquanta volte più potente dell’eroina e attrae i contrabbandieri che vogliono minimizzare il proprio profilo e i distributori desiderosi di ampliare il proprio inventario. Una polvere bianca innocua, che può essere facilmente mescolata ad altre sostanze oppure compressa in pillole contraffatte, rendendola un ingrediente versatile (e pericoloso) nei cocktail multi-droga.

La madre di quei bambini, come la maggior parte dei consumatori di fentanyl, era in precedenza una consumatrice di farmaci da prescrizione e di eroina, e aveva notato appena il graduale cambiamento nelle droghe che stava comprando. Il fentanyl però è particolarmente pericoloso per lei: il corpo metabolizza velocemente la sostanza chimica e il risultato è un effetto intenso ma relativamente breve che lascia il desiderio di consumarne ancora. Per la sua potenza è dunque difficile ottenere il dosaggio corretto e il confine tra soddisfazione e letalità è estremamente sfumato. Tra il 2016 e il 2020 le morti per fentanyl sono aumentate in tutti la nazione tranne che in sette stati, una tendenza che ha contribuito a registrare un calo nell’aspettativa di vita media in oltre un secolo. Più della metà dei circa 108mila decessi per overdose di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti nel 2021 sono stati causati da oppioidi sintetici come il fentanyl.

Sempre più letale

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Per gli agenti di libertà vigilata e altri operatori di sicurezza pubblica in prima linea, assicurarsi che i soggetti non fossero sotto l’effetto di droghe significava tenerli fuori di prigione. Ora invece significa tenerli in vita. Il fentanyl ha reso questo compito incredibilmente difficile: i mercati del farmaco sono resistenti alle interruzioni e gli esperti suggeriscono che dopo un grave arresto, l’offerta può riprendersi in meno di tre settimane.

Inoltre, il sistema di giustizia penale non ha la capacità di scoraggiare adeguatamente l’abuso di droga. Il tasso di tossicodipendenza può arrivare al 65 per cento tra i detenuti e circa al 40 per cento tra chi si trova in libertà vigilata o condizionale. Un agente di libertà vigilata mi ha detto che l’uso di droghe è così diffuso che «la premessa è che sono già fottuti. In pratica, di questi tempi siamo assistenti sociali con la pistola».

Senza la capacità di turbare i mercati o scoraggiare i consumatori, la politica non è riuscita a contenere l’epidemia di oppioidi e ora stiamo entrando nel suo terzo decennio più letale. È sempre più chiaro che se le droghe rimarranno, dobbiamo concentrare le risorse per contrastare la dipendenza stessa.

I due approcci

Ma la dipendenza è un problema complesso e c’è un notevole disaccordo sul modo migliore di combatterla. Gli atteggiamenti che hanno dominato la politica e la pratica durante l’epidemia sono due e potrebbero essere chiamati l’“approccio spirituale” e l’“approccio medico”. Ognuno di questi ha i suoi punti di forza; ma i loro limiti rivelano che difficilmente da soli saranno in grado di ridurre il numero delle vittime.

L’approccio spirituale si fonda sull’idea che la dipendenza è un fallimento morale a cui si può rimediare attraverso lo sviluppo spirituale. Questa convinzione è alla base dei moderni programmi di facilitazione in dodici fasi (Twelve-Step Facilitation, Tsf) come gli Alcolisti anonimi e i Tossicodipendenti anonimi. Questi programmi, che da tempo fanno parte delle risposte della giustizia penale all’uso di droghe, inquadrano la dipendenza come un problema che può essere mitigato solo facendo appello a un potere superiore, insieme all’astinenza e alla contrizione di gruppo.

Secondo gli psicologi, questi programmi sono efficaci almeno quanto altre forme di cura. Il problema è che i loro effetti si concentrano tra forse un terzo dei partecipanti che ne traggono benefici significativi, mentre i restanti non sperimentano alcun cambiamento. Ci sono pochi dati sull’impatto di questi programmi per quanto riguarda lo specifico uso di oppioidi. Ma i programmi Tsf migliorano i comportamenti sostituendo cattive reti sociali con reti migliori, e questo funziona meglio tra i consumatori di droghe sociali, come l’alcool, più che per i consumatori di oppioidi, che solitamente agiscono in solitaria.

L’approccio più comune per affrontare la dipendenza è quello medico, che ha dominato la risposta dell’America all’abuso di sostanze da quando l’ex direttore dell’Istituto nazionale per l’abuso di droghe Alan I. Leshner pubblicò un articolo sulla rivista Science nel 1997 intitolato La dipendenza è una patologia cerebrale, ed è importante. A differenza dell’approccio spirituale, l’approccio medico elimina la moralità (e la scelta in generale) dal modello della dipendenza, concentrandosi sulla prescrizione di farmaci o sul trattamento psichiatrico.

Quando attuati con efficacia, questi interventi prevengono le overdose e la morbilità e mortalità correlate. Ma i farmaci e le cure psichiatriche sono costosi, vanno oltre le possibilità economiche della maggior parte delle persone che soffrono di una dipendenza di lungo periodo, tanti dei quali non hanno l’assicurazione sanitaria. Ogni anno meno del 15 per cento delle persone diagnosticate con un disturbo da uso di oppioidi è in cura. Inoltre, il prolungamento della vita non equivale sempre a un suo miglioramento. Come la dialisi, andare ogni giorno in una clinica per il metadone è faticoso. Il tasso di ricaduta tra chi è in cura può raggiungere il 70 per cento dopo sei mesi. Finché il trattamento medico non sarà meno costoso, più ampiamente disponibile, e meglio eseguito, da solo non potrà bloccare il numero delle vittime. Per arrivare a quello ci vorrà tempo e intanto centinaia di migliaia di persone moriranno. 

La svolta verso la medicalizzazione ha prodotto anche una serie di conseguenze non volute. Le droghe legali che imitano gli oppioidi sono ora spesso prescritte in eccesso o dirottate sui mercati illegali. Non sono pericolose come l’eroina e il fentanyl, ma il loro uso scorretto prolunga i comportamenti di dipendenza, invece di limitarli.

In sostanza, l’approccio medico, che dovrebbe umanizzare i tossicodipendenti, ha spesso l’effetto opposto. Anche se il sentimento pubblico si fa più simpatetico nei confronti di chi fa uso di droghe, caratterizza la dipendenza principalmente come un problema medico e isola ed emargina i consumatori, trattandoli come persone affette da un morbo contagioso. Inquadrare la dipendenza come una patologia cerebrale è stato utile per iniziare un’azione politica, ma nega gli attributi sociali della dipendenza e troppo spesso elimina la scelta dall’equazione.

Costi e benefici

Oggi la maggior parte delle persone che risultano positive, come la madre che ho osservato l’anno scorso, riceveranno un severo avvertimento da una figura autoritaria, ma poco altro in termini di sostegno o punizione. La supervisione per le persone con dipendenza da oppioidi è una danza di suppliche e promesse da entrambe le parti, fino a quando il soggetto scompare o commette un altro crimine a servizio della sua abitudine. «Ci rientrerà prima di ripulirsi», mi ha detto l’agente per la libertà vigilata della donna mentre uscivamo di casa quel giorno. «Ma la prigione è meglio della sua morte».

Per affrontare la dipendenza c’è un altro modo, che si sta lentamente diffondendo in tutto il paese, che potrebbe essere chiamato “approccio comportamentale”. Interventi di questo tipo, radicati nell’economia comportamentale, riescono a sfruttare efficacemente i meccanismi esistenti a disposizione del sistema di giustizia penale riducendo al minimo i danni agli utenti derivanti sia dalla punizione sia dalla morbilità. A differenza dell’approccio spirituale, l’approccio comportamentale elimina gli imperativi morali dal processo di recupero e fa leva su sanzioni effettive minime per prevenire le ricadute. A differenza dell’approccio medico, invece, non impone universalmente una cura: l’obiettivo è mantenere gli utenti nelle loro comunità il più a lungo possibile nel rispetto del loro libero arbitrio.

L’approccio comportamentale inizia dal modo in cui si inquadra il problema. La dipendenza guasta il sistema di feedback di ricompensa del cervello attraverso una forma di condizionamento che diminuisce la capacità del malato di scegliere razionalmente. Accorcia la lente informativa dando più peso al guadagno di un massimo immediato a scapito di libertà, salute e solvibilità finanziaria. Ma come ha detto la psichiatra Sally Satel, questo processo di atrofia non è indelebile. Le persone conservano la capacità di cambiare il proprio comportamento di fronte a incentivi ben calcolati. Il modo ragionevole di correggere il problema della dipendenza è invertire il condizionamento operante, aiutando la persona a calcolare con precisione i costi e i benefici delle proprie azioni e ad agire di conseguenza.

Cosa vuol dire nella pratica? Invece di tollerare il suo uso di droghe, la madre che ho incontrato poteva incorrere in conseguenze ogni volta che faceva uso di droghe: conseguenze piccole a sufficienza da essere applicate in modo sistematico, ma grandi abbastanza da creare un disagio. Chi è alle prese con l’abuso di sostanze non è capace di nascondere i propri fallimenti, anche quelli piccoli. Come mi disse un agente: «Quando cominci a vedere i segnali d’allarme sai già che è questione di tempo prima di dover dire “mani dietro la schiena”». Se ognuno di questi avvertimenti fosse preso subito, l’eventuale perdita della libertà (e della vita) si potrebbe evitare. L’idea è di sollecitare le persone, non di prenderle a bastonate.

Disagi strategici

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Non si tratta di un esercizio ipotetico. Alimentati da un interesse per la scelta razionale tra gli studiosi di criminalità e tossicodipendenza, in tutto il paese sono nati diversi programmi che mirano a bilanciare adeguatamente i benefici e i danni della punizione. L’esempio più importante è l’Opportunity Probation with Enforcement delle Hawaii  (Hope), iniziato nel 2004. Nel programma Hope, tutte le violazioni rilevate durante la supervisione vengono punite il più rapidamente possibile. Può sembrare duro, ma aumentando la probabilità di essere scoperti e puniti, Hope riduce il bisogno di rigore. Se la madre a cui ho fatto visita fosse stata sotto la supervisione di Hope, il test antidroga risultato positivo avrebbe potuto comportare un aumento delle denunce, un periodo con un dispositivo di monitoraggio elettronico o una notte in prigione. Punizioni simili non recano danni permanenti alla persona sotto controllo, ma sono estremamente disagevoli. Il disagio paga. I primi risultati di Hope sono stati entusiastici e, anche se le successive iterazioni a volte non hanno replicato il successo delle Hawaii attraverso metriche come la recidiva criminale, Hope sembra ridurre l’abuso di droghe in modo notevole e duraturo.

Limitare le regole

Un’altra caratteristica dell’approccio comportamentale è che si concentra strettamente sul prevenire il comportamento più pericoloso – in questo caso, l’abuso di sostanze che potrebbe portare alla morte – invece di cercare di trasformare tutti gli aspetti della vita di una persona. Le persone intrappolate nel sistema di giustizia penale devono affrontare una serie di regole e restrizioni spesso pesanti. Gli agenti che ho intervistato confermano che le persone che sorvegliano raramente ricordano o comprendono l’importanza delle tante condizioni a cui devono sottostare.

Per affrontare questo problema alcuni esperti raccomandano di limitare le regole solo a quelle che sono importanti per la sicurezza pubblica: un processo chiamato “condizionamento a base zero”. Un programma di particolare successo che ha adottato questa filosofia è 24/7 Sobriety“sobri h24”, introdotto per la prima volta nel South Dakota. Si dà ai guidatori ubriachi una regola sola ripetuta – astenersi dal consumo di alcol – e la si fa rispettare mediante test giornalieri combinati a sanzioni immediate, ma non severe, in caso di violazione. Così gli agenti consentono alle persone a loro affidate di concentrarsi sul recupero, più che sulle regole. Le valutazioni di 24/7 hanno dimostrato che il programma non solo riduce l’abuso di alcol e i tassi di recidiva, ma anche la mortalità per tutte le cause laddove viene implementato: si stima che i partecipanti abbiano il 55 per cento in meno di probabilità di morire nei cinque anni successivi al programma.

Hope e 24/7 Sobriety sono stati inizialmente progettati per i consumatori rispettivamente di metanfetamine e alcol, ma la carneficina dell’epidemia di oppioidi ha spinto le agenzie di supervisione comunitaria ad adattare i loro principi per chi fa uso di oppioidi. E la cosa funziona. Diverse iniziative recenti in questo senso, tra cui una nel New Jersey, hanno ridotto l’uso di droghe e aumentato la quantità di tempo che le persone osservate trascorrono nelle loro comunità. Questi programmi non impongono cure, che spesso sono fuori portata, e non si basano su sanzioni draconiane. Inoltre, mantenendo i soggetti sotto stretta supervisione senza lunghi periodi di incarcerazione, agiscono come una forma di quello che l’economista Angela Hawken chiama “triage comportamentale”: consentono agli agenti di supervisione di identificare gli utenti che sono solo marginalmente dipendenti, di separarli da quelli con dipendenze più profondamente radicate e allocare le scarse risorse di conseguenza.

La chiave del recupero

Non esiste una pozione magica per risolvere la crisi degli oppioidi. E se anche ci fosse, sarebbe improbabile colpire un bersaglio che si muove così velocemente. Eppure chiunque sia sul sentiero della dipendenza, tra il piacere e la morte, ha almeno una cosa soltanto per la quale non è disposto a pagare il prezzo per continuare l’uso di droga, e qui sta la chiave del recupero. «Sono stanca di non avere mai niente», è stato il modo in cui una donna in libertà vigilata con cui ho parlato ha spiegato il suo sforzo per porre fine a quattro decenni di dipendenza dall’eroina. Un’altra persona in recupero ha detto: «La cosa che mi ha fatto provare è stata ammettere a me stesso che solo perché non mi sto mettendo una pistola in bocca, non significa che non stia cercando di uccidermi. Mi sono reso conto che non potevo costringere mio padre a seppellirmi». 

Per la madre dei tre bambini con cui guardavo i cartoni animati quella mattina della scorsa primavera, le cose non sembravano così semplici. «Disintossicarmi è come ricostruire la mia vita da zero», mi ha detto. Potrebbe essere in prigione in questo momento, o forse sta preparando la cena per i suoi figli, oppure potrebbe essere fatta. In qualunque caso però, può ancora scegliere, e dobbiamo usare tutti gli strumenti disponibili per aiutarla a scegliere bene.


Questo articolo è apparso sulla testata online Persuasion. Traduzione a cura di Monica Fava

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