La giovane attivista appartiene alla stessa schiera della scrittrice per l’infanzia Astrid Lindgren, dell’orsetto Bamse dei fumetti e del primo ministro Olof Palme.
- La Svezia è la patria della pedagosita Ellen Key, convinta che il principale segreto dell’educazione sia dare sostegno ai bambini mentre esplorano il mondo e poi lasciare che traggano le loro conclusioni. Ha influenzato la scrittrice Astrid Lindgren, autrice di Pippi Calzelunghe.
- L’attenzione di Greta ai leader mondiali si inserisce nel solco del pensiero politico del primo ministro Olof Palme che ha costruito un ruolo internazionale di primo piano per la Svezia come superpotenza morale.
Negli anni Settanta nasce il personaggio di Bamse, l’orso più forte del mondo, quasi un Palme in versione pelosa, sempre pronto a prendere le parti dei più deboli.
Questo testo è un estratto dal nuovo volume di The Passenger, la rivista-libro pubblicata da Iperborea, dedicato alla Svezia che esce in questi giorni. Traduzione di Alessandra Albertari.
È un caso che Greta Thunberg sia svedese? Avrebbe potuto essere una 17enne italiana, tedesca o norvegese? Io non credo. La «svedesità» è uno dei presupposti della sua persona. Greta appartiene alla stessa schiera della scrittrice per l’infanzia Astrid Lindgren, dell’orsetto Bamse dei fumetti e del primo ministro Olof Palme. E se qualcuno trova che il mio ragionamento sia bizzarro, mi basta aggiungere alla lista Ellen Key.
Greta Thunberg è il frutto e la conseguenza dei concetti e degli ideali formulati da questa donna svedese – scrittrice, pedagoga e ideologa del femminismo differenzialista – in particolare nel libro Il secolo del bambino, pubblicato nel 1900 (edizione italiana a cura di Tiziana Pironi e Luisa Ceccarelli, edizioni junior, 2019). Tutto è collegato dallo stesso filo rosso e con il tempo concorre a formare l’essenza della «svedesità».
Ellen Key nacque nel 1849 da genitori con un buon livello di istruzione, ma nonostante vivesse in un contesto privilegiato ebbe un’infanzia difficile. I suoi tre fratelli venivano spesso sottoposti a punizioni violente, il che conduceva a confessioni false e creava una relazione genitori-figli incentrata su rancore e mancanza di fiducia.
Crescendo, Ellen divenne un’attivista politica piena di contraddizioni: pur abbracciando posizioni liberali solidarizzava con il movimento dei lavoratori e il socialismo. Lottava per il diritto delle donne al voto e a un lavoro retribuito, ma affermava la specificità della donna come portatrice della maternità, sostenendo che il suo posto era la casa, investita dell’educazione dei figli. Il secolo del bambino fu tradotto in 26 lingue e la rese ben presto celebre a livello mondiale.
Se da un lato nel suo libro Ellen Key fornisce argomenti in favore della selezione naturale di Darwin e del fatto che ad alcune categorie di persone non andrebbe consentito di riprodursi, dall’altro rivolge una critica spietata al carattere autoritario dell’educazione, della scuola e dell’insegnamento del suo tempo.
Le punizioni corporali e le percosse rendono il codardo più codardo, l’arrogante più arrogante, il duro più duro. L’educazione deve invece rafforzare l’individualità e la libera crescita, così la pensava Ellen.
Era una posizione radicale e sconvolgente, in un’epoca in cui i bambini erano considerati portatori di un peccato originale che andava combattuto a suon di botte e punizioni. Ma il bambino ha doveri e diritti inalienabili come gli adulti. Con riferimento al filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau, Ellen Key sosteneva che il principale segreto dell’educazione stia nell’evitare di educare: bisogna dare sostegno ai bambini mentre esplorano il mondo e poi lasciare che traggano le loro conclusioni. Chiunque la pensi così prenderà sul serio le opinioni delle persone, che a esprimerle sia un bambino di sette anni, un’adolescente di 17 o un adulto di 57.
Anche la pedagogista italiana Maria Montessori si ispirò a Ellen Key. Proprio come lei, auspicava che si sviluppassero nuovi individui dotati di un io forte e che i bambini vivessero in un ambiente il più possibile libero dal dominio degli adulti.
Le idee di Ellen Key si diffusero in gran parte del mondo, ma fu nella madrepatria Svezia che attecchì maggiormente la sua concezione di un bambino da considerare come un individuo al pari degli adulti. Un’altra devota ammiratrice fu proprio Astrid Lindgren, la cui opera si basa tutta su una visione dell’infanzia riassumibile nel concetto di «bambino competente».
Modello Pippi Calzelunghe
Era l’estate del 1925. Astrid Lindgren, all’epoca 18enne, stava facendo un’escursione insieme ad alcune amiche nella provincia meridionale dell’Östergötland. Forse fu una sorta di caccia alle celebrità a portarle a scovare la casa di Ellen Key a Omberg, fatto sta che mentre erano davanti allo steccato a sbirciare nel giardino Ellen uscì sul balcone e domandò loro cosa volessero.
A quel punto un grosso cane si lanciò fuori e morse una delle sue amiche a una gamba. Le ragazze vennero fatte entrare in casa per mettere un cerotto alla malcapitata, e la famosa scrittrice scese dalle scale per salutarle, mezza svestita e con i capelli sciolti. Poi si rivolse ad Astrid e le chiese in tono deciso di allacciarle la sottogonna. Meravigliata e intimidita, Astrid obbedì. E fu tutto, così si concluse il loro primo e unico incontro.
Quando nel 1945 nasce il personaggio di Pippi Calzelunghe, una bambina dall’io forte che non è stata soggiogata né indottrinata da alcuna particolare educazione, i principi di Ellen Key trovano un corpo, un viso e due trecce. I suoi ideali antiautoritari raggiungeranno ogni bambino di tutto il paese, generazione dopo generazione. Proprio questi ideali costituiscono il seme che ha trasformato Greta Thunberg da adolescente depressa ad attivista e icona di risonanza mondiale.
Il padre di Greta ha raccontato di essere diventato vegano come conseguenza dell’impegno della figlia, e sua moglie ha smesso di volare. Così Greta Thunberg diventa lei stessa emblema della «bambina competente», che insegna ai genitori tanto quanto loro insegnano a lei.
La superpotenza umanitaria
Ma la connessione di Greta ai valori svedesi non finisce qui. L’«effetto Greta» non ha solo a che vedere con il fatto che un’adolescente venga trattata con rispetto, che riesca a farsi ascoltare, che impari dal mondo ma aspettandosi anche che il mondo impari da lei. C’è in gioco un ulteriore parametro: la supremazia morale. L’indice del suo «how dare you?» non è solo puntato contro chi sbaglia, ma segna anche la via che le persone virtuose devono seguire.
Quel messaggio ripetuto senza un pizzico di esitazione è forse il tratto più evidente del fenomeno Greta, e proprio questo suo sentirsi nel giusto scatena reazioni emotive: è amata da molti ma detestata da altri. Anche qui siamo di fronte a una tradizione fortemente svedese. Pensiamo infatti alla formula usata dal ministro Carl Bildt nel 2013: «La Svezia è una superpotenza umanitaria.» All’epoca questa dichiarazione suscitò forti reazioni, ma era la sintesi corretta di una linea di politica estera le cui basi erano state gettate alla fine degli anni Sessanta dal socialdemocratico Olof Palme, l’immagine stessa del politico in grado di prendere posizioni chiare su ingiustizie e le disuguaglianze.
Palme criticava gli Stati Uniti. Criticava anche l’Unione Sovietica. Era un attivista che alla fine degli anni Quaranta aveva sposato una donna ceca per aiutarla a fuggire dall’oppressione comunista. Quando nell’ottobre 1969 Palme divenne capo del Partito socialdemocratico e primo ministro risultò subito chiara la sua vocazione per le questioni internazionali.
Fino ad allora la politica estera svedese era stata improntata alla moderazione. Nel suo ruolo di stato cuscinetto non allineato tra i due blocchi delle superpotenze, la Svezia sceglieva spesso di mantenere un basso profilo. Con Palme tutto questo cambiò. Il neo primo ministro parlava spesso di «terzo mondo» – i paesi poveri che non appartenevano né al blocco comunista né al mondo occidentale – affermando che la Svezia aveva una responsabilità morale nei confronti di quelle popolazioni.
Così recitavano le sue parole nel 1968: «La faccia che mostriamo al mondo deve esprimere quella solidarietà nei confronti dei poveri e degli oppressi che fu la forza trainante al tempo in cui si costituì il movimento dei lavoratori nella vecchia e povera Svezia, e che ci ha guidati nel nostro sforzo di riformare la società svedese su basi di uguaglianza e giustizia.»
Come riflesso dello spirito del tempo nacque il personaggio di Bamse, l’orso più forte del mondo, quasi un Palme in versione pelosa, pedagogico e a misura di bambino, sempre pronto a prendere le parti dei più deboli, a trasformare l’ostilità in amicizia e a coniare slogan incrollabili su come va vissuta la vita.
Non so molto dei genitori di Greta Thunberg, tranne che appartengono alla mia stessa generazione. Quando eravamo bambini, negli anni Settanta, la televisione pubblica cominciò a trasmettere i cartoni animati di Bamse.
Nel 1973 uscì il primo fumetto e divenne uno dei più venduti del paese. Io sono cresciuta sentendo Bamse che affermava risoluto che la stupidità del mondo si poteva estirpare con la conoscenza e che le botte non hanno mai fatto diventare buono nessuno; immersa nella percezione generale che la Svezia dovesse essere in prima linea a risolvere i dilemmi morali del mondo.
Greta Thunberg è svedese perché Astrid Lindgren ha scelto di rifarsi a Ellen Key, e dalla loro comune visione dell’infanzia è nata Pippi Calzelunghe, la «bambina competente» dotata di superpoteri.
È svedese, perché solo in Svezia si è venuta a creare una cultura politica il cui scopo è dire al mondo come deve comportarsi, una cultura inaugurata da Olof Palme e da allora mantenuta viva da tutti coloro che si sono avvicendati al potere.
Ancora oggi pressoché tutti i bambini del paese crescono in compagnia di Bamse, l’orsetto che non perde mai l’occasione di arrabbiarsi per la stupidità e le ingiustizie del mondo. La sua soluzione è portare la gente a pensarla diversamente (cioè nel modo giusto), secondo il motto «tanti piccoli e deboli insieme possono sconfiggere il forte».
La stessa Greta Thunberg ci dice che «nessuno è troppo piccolo per fare la differenza». Sembrano le parole di Bamse. Io credo che sia Astrid Lindgren che Olof Palme avrebbero applaudito all’impegno, alla forza, alla fragilità di Greta, e alla sua determinazione a voler provare a cambiare il mondo. Sono certa che anche Ellen Key esulterebbe. Più svedese di così non si può.
Traduzione di Alessandra Albertari. Questo testo è un estratto dal nuovo volume di The Passenger, la rivista-libro pubblicata da Iperborea, dedicato alla Svezia.
Elisabeth Åsbrink (1965) è una nota scrittrice e giornalista svedese, che vive tra Stoccolma e Copenaghen. Con il suo primo libro «Och i Wienerwald står träden kvar» nel 2011 ha vinto il premio August e nel 2013 il prestigioso Ryszard Kapuściński per il miglior reportage letterario. 1947 è il suo primo libro tradotto in Italia, in corso di traduzione in 15 paesi.
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