- Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere. Ma mai come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che potrebbero scongiurarla.
- Questo testo è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo, pubblicato da Egea.
- Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.
Viviamo in un’epoca di straordinarie opportunità. Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone di altri luoghi, trovare un lavoro, avviare un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare qualcosa di nuovo, votare, ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.
Oggi miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che potevano vantare i re medievali. L’inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.
Ma, come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe. Le conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante, ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente potenziata e dalle nuove forme di guerra.
E tutto avviene alla velocità della luce. Per miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita intelligente. Per milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia di esseri umani. Per altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire il progresso.
Poi è arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla caccia e alla pesca. Le ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.
Le popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle relazioni. Nel I secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra. Nel corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni. Grazie alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.
Ci sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a sette miliardi. L’accelerazione dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.
Agli albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora, pensiamo ai progressi della comunicazione.
La prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo. Nel 1989 Tim Berners-Lee inventò il World Wide Web e il primo browser. Oggi più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.
Pensate alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel 1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo per dodici secondi. Appena 58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna. Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande come un francobollo.
Ora facciamo un salto di venticinque anni nel futuro. Sono queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.
La nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più velocemente di quanto riusciamo a registrare. Abbiamo liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.
Siamo davanti a un bivio. Come spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato: sono qui con noi in questo preciso momento. Il cambiamento climatico si intensificherà, qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque. Gran parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.
Le nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le sofferenze continueranno. Solo una risposta globale potrà contenere i danni. I nostri leader nel mondo della politica, degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e coordinarsi in nuovi modi.
Man mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate. Alcuni useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna che la violenza può generare altra violenza.
Per i privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire bastoni e pietre. O pistole. O bombe al nitrato d’ammonio. Ma quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale – più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.
Il ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti. Oggi le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano dipendenti.
Persino nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima averlo testato. Vogliamo sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi effetti e se causerà effetti collaterali. Regolamentiamo il tabacco e gli alcolici. Vogliamo impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.
Ma quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test. Iniettiamo tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.
Le nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò. Questi sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola. E proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro pratico e morale per il bene di tutti.
Cooperazione pratica
Tutte le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.
Vogliamo un accesso sicuro al cibo e all’acqua. Vogliamo che la legge ci protegga e che protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di guadagnarci da vivere. Se perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.
Tutte queste cose le vogliamo anche per i nostri figli. Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che accade molto lontano dai nostri confini. I confini cambiano, gli imperi sorgono e cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri problemi.
Il panico spaventa i mercati di tutti i continenti. Le tempeste infuriano nonostante le barriere marittime. Le malattie si diffondono. La criminalità scatena altra criminalità. I disordini politici ridisegnano intere società. Le guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia.
Fino a quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico ecosistema, in senso sia metaforico che letterale. Questo libro vuole ribadire l’importanza di una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.
Non dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di valori politici ed economici. Non c’è bisogno che tutti lavorino assieme. Non dobbiamo risolvere ogni singolo problema. Di certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.
Ma non è mai stato più chiaro di così: i cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da soli.
Sono un americano patriottico. Sono veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi. Ma non sono un nazionalista. Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente superiori a quelli degli altri.
L’America è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti. Né credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema. La democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un dittatore se la passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.
Per costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione. Fu la tirannia del comunismo sovietico a sottrarre la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena 44 anni dopo. Nessuna democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha fatto il Partito comunista cinese.
I comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini della storia contro persone innocenti. Ma è vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in catene.
Non essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose sono vere. Né credo in una marcia ineluttabile verso la pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà. La storia ci insegna che nessuno di questi risultati è inevitabile. Eppure, per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.
L’archeologia ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana. È stata la collaborazione tra le persone a gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.
La nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze distruttive che abbiamo messo in moto. I vari processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.
Vedendo nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando milioni di persone.
Il contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento. Non è possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una volta sola.
Bisogna cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a questi progetti conviene. Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo accordo con i loro rivali.
Suona utopistico? Prima di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.
Dopo la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo, definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita distanza dalle future guerre europee. I tentativi di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché l’America rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.
Negli anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per la vita americana. Per le potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata dalla Prima guerra mondiale.
Come se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte. Come se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare a incrinare la pace. Una generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone. Quando finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.
Quell’investimento saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie. Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per seminare distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.
Il fascismo è stato sconfitto. Sono crollati imperi e milioni di persone hanno ottenuto l’indipendenza. L’umanità ha dato prova di resilienza. Sotto la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno compiuto grandi salti in avanti. Il numero di paesi democratici è aumentato.
In sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine: il conflitto non cesserà fino a che ciascuno di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri. Le Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla sicurezza, alla dignità e alla prosperità. La Carta delle Nazioni Unite affida all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario».
Sono state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini, per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condivi dere le risorse necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto internazionale.
La Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla razza umana. È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra specie dopo il XX secolo.
Sono stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i molteplici fallimenti di queste organizzazioni. Oggi riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che nel 2022 non esiste più. Ma se domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo: il mondo interdipendente che queste istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.
Le Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con altri paesi. Le forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti. L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.
Anche l’Organizzazione mondiale del commercio crea vantaggi per tutti i paesi che vi aderiscono. Le sue regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e la loro applicazione è lenta e incompleta. Ma, come in ogni terreno di forte competizione, è di gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro fallibile che non averne affatto.
Il Fondo monetario internazionale e altri finanziatori multilaterali offrono un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto, spesso agendo come prestatori di ultima istanza. Talvolta le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini ad evitare la catastrofe.
Anche l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo. Molti cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai danni delle libertà individuali.
Ma l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due conflitti più distruttivi della storia. Ha aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Ha offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità. Ha ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non poter spendere per investire in questi progetti. Ha assunto il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy. Ha creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi. Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.
Criticare tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna. Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti gli abitanti del mondo. Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre meno probabili. Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando una struttura che sostiene la responsabilità collettiva.
Ogni anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno ispirato e reso necessarie queste organizzazioni. Non dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato. Se lo faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.
La rotta di collisione
Precedentemente ho illustrato due rischi di collisione. Il primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica superpotenza mondiale. Il secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e quella emergente rappresentata dalla Cina.
Il pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci attendono. Siamo tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.
Questi sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune. Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.
Non credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia americana. Le istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno già assorbito shock considerevoli in passato.
Non intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.
Non credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di altre divergenze. Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che altri governi li seguano sulla strada del disastro.
Ma… ho scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte. Per prepararsi ad affrontarle dovranno cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle chimere dei massimi valori.
La giusta crisi
Gli esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti. Ma non basta una qualsiasi emergenza. Abbiamo bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una risposta efficace.
Abbiamo bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione tecnologica.
Una crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.
Una crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro. Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro. Di sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.
Tutti i governi del pianeta sono stati costretti a reagire. I danni economici provocati sono stati ingenti, preannunciandosi duraturi. Il virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le conseguenze.
Ci siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan. Eppure troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.
Nel campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci aiuteranno a superare la prossima tempesta virale. Le ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e studierà online.
La pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in maniera ecosostenibile. Ma il Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.
Il Covax ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo progetto, e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico per consentirne il successo.
Come accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire. Benché necessaria, questa misura ha fatto ben poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano. Piuttosto che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio un’Organizzazione mondiale dei dati – i nostri leader sembrano accontentarsi di curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.
Il cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di cui abbiamo bisogno. Dobbiamo agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi imminenti creeranno.
Una visione positiva
Per inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi. Abbiamo bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in atto quando e come ne abbiamo bisogno.
Sono troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli non altri faranno. Chiudiamo la porta ancor prima di aver intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.
La condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere. Inoltre ci concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine. I consumatori non sono gli unici a volere una gratificazione immediata. Anche politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa. Sia loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica, dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal prossimo notiziario.
Ma il nostro più grande limite è probabilmente questo: siamo in pochissimi a voler piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri. Per sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta. Non serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o sui valori nazionali.
Ma devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla cooperazione.
Devono decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi. Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le nazioni. Le ripropongo in chiusura.
Un covax globale
In risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto Covax per collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a tutti i paesi del mondo4. Cina, Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.
Se il progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima. Il modello del Covax va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima pandemia.
Inoltre, il Covax può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili – e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci riserverà.
Un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni di carbonio
Il cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni nette di carbonio nell’atmosfera entro il 2050. Nessuno vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella capacità degli altri di mantenere le promesse.
Qualsiasi accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori internazionali indipendenti. Per essere credibili le soluzioni hanno bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di accelerare il progresso.
Un piano Marshall verde
Un accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà anche nei migliori scenari.
Dovrà prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti. A differenza del Piano Marshall, che contribuì alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei soli Stati Uniti, il successo di un Piano Marshall verde dipenderà dalla condivisione globale dei costi e degli altri oneri.
Per un’ Organizzazione mondiale dei dati
Il mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori. Abbiamo bisogno di regole e standard che valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le informazioni personali che generiamo.
Proprio come l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU, che elabora analisi indipendenti sul riscaldamento globale, e l’Organizzazione mondiale del commercio, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare il commercio fra tutti i suoi membri, così un’Organizzazione mondiale dei dati può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà intellettuale e i diritti dei cittadini.
La Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza, privacy, protezione della proprietà e libertà personale. Ma se le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà possibile.
Chi raccoglierà questa sfida
L’America non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra. Le elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e pericolose della storia americana. Non è un’esagerazione.
Nei prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le istituzioni su cui la democrazia americana poggia. Fortunatamente il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali. Basta che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
Il mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro strappi. Non succederà mai. Ma se Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle questioni climatiche e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i paesi e l’umanità tutta.
Ma, soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un ruolo chiave. L’Unione europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti questi ambiti.
Ci sono buoni motivi per essere ottimisti. Quando il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.
Le crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE. Ma il Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegna re la propria rotta non solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento climatico.
Una delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio respiro. Molti dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco. Ma questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di contenimento del cambiamento climatico.
Facendo della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la Commissione europea ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da destinare al contenimento delle ricadute della pandemia e del cambiamento climatico presso gli stati membri storicamente riluttanti.
Solo gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la ripresa post pandemia. Inoltre il sistema di scambio delle emissioni dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2030.
La versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle «quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni marittime.
La messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio saliranno con l’obiettivo di imprimere slancio alla riduzione delle emissioni.
Alcuni leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal rallentamento causato dal Covid al reshoring, ossia il rimpatrio della produzione nei paesi d’origine. È una buona notizia per l’occupazione locale ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti finali alle norme clima tiche dell’UE.
Non solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in Europa a rispettare gli standard europei. I fondi raccolti con l’aumento dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.
Si tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro. L’Unione europea ha usato il Covid-19 per combattere il cambiamento climatico incanalando i fondi per la ripresa all’interno di progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici, vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.
L’Europa sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre questioni urgenti. Sui temi dell’utilizzo dei dati e della privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi non potranno permettersi di ignorare.
Se Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso tutelando i diritti e le libertà delle persone.
Ma il pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare da soli un nuovo globalismo. Alcune aziende hanno sfere d’influenza e interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi. La loro rilevanza non potrà che aumentare.
È una buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente. Tra esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del mondo.
Se aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero averli fugati una volta per tutte. Sebbene il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato il più grave assalto alla demo crazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha intrapreso un’azione decisiva. A poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.
Hanno temporaneamente bandito Parler, un servizio che molti sostenitori di Trump usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori dai servizi di web hosting e dai principali app store. Il governo e le forze dell’ordine non hanno avuto alcun ruolo in questa vicenda.
La cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo. A maggio il Consiglio di sorveglianza di Facebook – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.
Le aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici spettatori.
Oggi non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia motivi di ottimismo. Le principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si dirigerà verso un futuro molto più roseo.
Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando. Già in passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica. La Compagnia delle Indie Orientali e il suo esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto della Corona nel Settecento e nell’Ottocento. «Big Oil» esercitava un’enorme influenza politica durante i suoi anni d’oro.
Ma gli odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti fondamentali. Innanzitutto, i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio fisico. Mantengono ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo politica: lo spazio digitale, che essi stessi hanno creato.
Le persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione di governi. Neanche il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo territorio. Lo spazio fisico è finito. Quello digitale cresce in maniera esponenziale.
Considerando i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra. Gli oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi. Google sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo di ore di video.
Gli analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «datasfera» – la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo ogni anno – raggiungerà quasi 60 zettabyte nel 2020. La datasfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con dispositivi connessi a internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le cose per i politici.
I politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale. La capacità di un candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.
Per una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati indispensabili per avviare un business di successo.
Più le persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato dell’innovazione.
I governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere. La Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e altre società online. L’Unione europea ha cercato di regolamentare i dati personali, i contenuti online e i gatekeeper (i «controllori dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.
La sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del 2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la propria volontà sulla sregolata sfera digitale. Ma i governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.
Le aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata. In passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri servizi essenziali. Oggi una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in moltissimi altri campi.
Cominciamo proprio dal settore informatico. Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon, Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di servizi cloud. Durante il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi potevano continuare a imparare.
Molto presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.
Tutti dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi leader del cloud. La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.
Segnatamente, questi obiettivi potranno essere globalisti, tecnoutopici o nazionalisti. Tutte le aziende esistono per fare soldi. Per le imprese che forniscono servizi digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.
Per decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande possibile. Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste. Inizialmente hanno puntato a dominare una nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in tutto il mondo.
Aziende cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro crescita è lo stesso: aprire negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle necessità e competere senza sosta.
I dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici, lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità da sempre assegnata all’approccio globalista.
È possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso tecnoutopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e Shenzhen.
Alcune delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate a ricoprire. In Occidente alcuni di loro, come Mark Zuckerberg o Larry Page e Sergey Brin di Google, mantengono il controllo delle rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture finanziarie.
In questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO. Sono tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare l’umanità da se stessa.
Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della tendenza tecnoutopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere l’umanità una «specie multiplanetaria» colonizzando Marte.
Anche il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende tecnologiche. A partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del governo in importanti domini tecnologici, tra cui il cloud, l’intelligenza artificiale e la sicurezza cibernetica.
Visto il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di cloud computing al governo americano.
Queste tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e delle intenzioni dei loro leader. Le aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecnoutopiste e nazionaliste. Ma le categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.
Si allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina? Resisteranno alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un approccio più globalista?
O scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o addirittura nuove forme di governo umano?
Mentre la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani opereranno in uno di questi tre scenari: lo stato regna sovrano e i campioni nazionali vengono premiati; le aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica; lo stato svanisce per dare potere ai tecnoutopisti. Vediamo che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.
Lo stato regna sovrano/Vincono i campioni nazionali
In questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e puniscono le imprese che non si adeguano.
Le aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.
Nella vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come soccorritore di ultima istanza.
In questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono allineati con quelli del governo.
La chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post pandemia e nella transizione verde.
Le aziende soggiogano lo stato/Vincono i globalisti
In questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con l’automazione e la digitalizzazione.
Il sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.
Le autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione. Le imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in paesi autoritari come la Cina e la Russia. A differenza dei campioni nazionali, ai globalisti interesserà meno supportare i governi: la loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.
I globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio. Possono sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America. Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.
Lo stato svanisce/Vincono i tecnoutopisti
In questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici dissolve il contratto sociale. Gli americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.
La disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.
Per i tecnovisionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo diventa discutibile. Elon Musk gioca un ruolo più importante nella trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio. Mark Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.
Ma l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecnoutopisti di tutto il mondo. Anche la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire un tracollo.
La sfida cinese
Questo modello globalista-nazionalista-tecnoutopista non si applica altrettanto bene alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore. I tecnoutopisti come Jack Ma stanno imparando a non sfidare apertamente lo stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi come se fossero prima di tutto nazionalisti.
Alibaba, che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e business-to-consumer del mondo, deve stare attenta; lo stesso dicasi per ByteDance, la cui app di condivisione video TikTok l’ha aiutata a diventare l’unicorno di maggior valore a livello mondiale.
Stessa sorte tocca a Tencent, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza statale cinese di quanto non faccia Alibaba. Se l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà d’azione all’interno dei confini nazionali.
Per il momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali. Un mondo in cui lo stato diventasse più forte sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di soffocare la cooperazione globale.
Se Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.
Uno scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo (ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.
Un mondo in cui i tecnoutopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in poche mani, spesso le più eccentriche.
La generazione Z
I governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non controllano.
Le organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.
Le aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità. Molte delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto estesi. Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i legislatori nazionali.
Quando Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’Accordo di Parigi sul clima, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.
Non è un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia. L’area metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o della Russia.
Nel mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore privato non possono ignorare in eterno. Abbiamo inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.
La Generazione Z – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare enormemente nel prossimo decennio. Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen Z» è la generazione più interconnessa a livello globale della storia.
La stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si può e non si può fare.
Appellarsi alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta dalla Gen Z è molto diversa da quella della mia generazione.
Sono cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic. Sapevo, come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.
Oggi i giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in tutto il mondo. Giocano in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani. Questa non è la globalizzazione di 25 anni fa. I ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto: una visione a 360° del mondo.
Sono consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in comune con gli altri. In particolare, sanno meglio di qualsiasi generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni future.
È facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri come Greta Thunberg ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare. La loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.
La paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia. Reagan e Gorbaciov lo sapevano. Oggi le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.
Siamo chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a creare. In questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande opportunità della storia umana. La necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.
Dobbiamo costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si può e cooperare dove si deve. Siamo i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in grado di sconfiggerle. Vista la posta in gioco, se falliremo non avremo un’altra possibilità.
Questo è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, "Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo" edito dalla casa editrice “Egea”.
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