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Nei loro millenni di vita collettiva, ripetutamente, gli abitanti delle Italie continentale, peninsulare e insulare hanno fatto e hanno subito la guerra. Esattamente come per tutte le altre popolazioni dell’Europa, ma si potrebbe dire del pianeta, la guerra ha toccato, trasformato, inciso e non di rado ucciso le loro vite.
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Esattamente come per tutte quelle altre popolazioni, nel corso di una storia plurimillenaria, il rapporto degli italiani con la guerra è stato al tempo stesso costante e mutevole, sempre ricorrente e sempre diverso.
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Ma è questa una storia solo di battaglie? Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “Corsa alle armi”, in edicola e in digitale da venerdì 2 dicembre.
Nei loro millenni di vita collettiva, ripetutamente, gli abitanti delle Italie continentale, peninsulare e insulare hanno fatto e hanno subito la guerra. Quelli che oggi a ragione chiamiamo italiani – i quali hanno costruito però uno stato unitario solo molto di recente, fra il 1861 e il 1918 – per secoli hanno portato la guerra all’esterno così come l’hanno sopportata al loro interno: ora intentata da altri, ora condotta fra di loro, appunto sino alla costruzione unitaria. Esattamente come per tutte le altre popolazioni dell’Europa, ma si potrebbe dire del pianeta, la guerra ha quindi toccato, trasformato, inciso e non di rado ucciso le loro vite.
Esattamente come per tutte quelle altre popolazioni, nel corso di una storia plurimillenaria, il rapporto degli italiani con la guerra è stato al tempo stesso costante e mutevole, sempre ricorrente e sempre diverso, dall’età antica a quella medievale, da quella moderna a quella contemporanea. Per alcuni – e, in talune circostanze, per alcune – fra quanti hanno abitato l’Italia lungo tutti questi secoli, l’attività bellica ha anzi costituito la principale preoccupazione, e l’unica professione: sono stati guerrieri, uomini d’arme,
militari.
Non vi sarebbe bisogno di ricordare la “normalità” del rapporto storico fra italiani e guerra, e forze armate, se non perdurasse ancora un detto secondo il quale «les Italiens ne se battent pas». Contro la visione eccezionalista, considerata una generalizzazione ingiuriosa, e in effetti pronunciata in maniera interessata, gli storici risorgimentisti e nazionalisti del Diciannovesimo secolo sono insorsi, rivendicando invece (e talora inventando) un passato eccezionale tutto glorioso.
Oggi, costatiamo più pacatamente che l’una e l’altro sono stati invenzioni
di una tradizione, che vale la pena decodificare: simili invenzioni,
infatti, non possono e non devono nascondere un rapporto complesso,
intricato, luttuoso, sempre diverso, durato appunto secoli, fra italiani,
guerre e forze armate.
Ma è questa una storia solo di battaglie? Per lungo tempo anche da noi la ricostruzione, o la glorificazione, del passato militare degli italiani era stata appannaggio degli stessi guerrieri, o militari, oppure di estensori di poemi, cronache, memoriali, memorie a essi assai vicini. Negli ultimi secoli la storia militare, come ovunque, è stata una materia insegnata nelle Accademie delle forze armate e scritta da professionisti della guerra per professionisti della guerra: gli storici militari, insomma, erano in realtà militari storici. Tale monopolio, anche in Italia, è ormai perso.
Ciò permette di avere una ricostruzione del millenario rapporto degli italiani e della società italiana con la guerra e con il mestiere delle armi meno viziata da preconcetti, meno finalizzata alla creazione di una professione, maggiormente in grado di illuminare gli aspetti e i lati più diversi di quel rapporto: permette quindi, in sostanza, di farne storia, di restituire la tremenda complessità della questione.
Oggetto complesso
Lo stesso Clausewitz, nel suo Della guerra (e in particolare in uno dei più famosi capitoli, quello sugli attriti), aveva ammonito al riguardo: ciò non voleva dire che del fatto bellico non fosse possibile fare storia, ma solo che quest’operazione conoscitiva era almeno altrettanto complessa del suo oggetto.
Clausewitz aveva anche raccordato il tempo della guerra al tempo della pace, gli anni (o i mesi, o le giornate, a seconda dell’età storica) dello scontro bellico ai lunghi anni di pace nel corso dei quali i militari si addestravano, si allenavano, si preparavano. Aveva già suggerito una lezione che gli storici militari, anche quelli italiani, hanno imparato più tardi: che la storia militare non può limitarsi al tempo di guerra, ma deve tenere conto dei più lunghi tempi di pace.
Per la verità un altro tedesco, uno storico, aveva già indicato la
strada, meno di un secolo dopo Clausewitz: al tempo in cui la storia
militare era ancora monopolio delle Accademie militari e la storia
politica era invece lo standard della migliore ricerca, Hans Delbrück
inscrive infatti la storia dell’arte militare nel quadro della storia politica.
Nei primi vent’anni del Novecento Delbrück metteva dunque in pratica l’insegnamento secondo il quale, per scrivere la storia di un’attività così complessa, tutto si tiene. È stato un grande avanzamento.
Purtroppo fra gli storici italiani pochi lo hanno seguito: tra di essi, fra gli
anni Trenta e Sessanta, Piero Pieri. È stato grazie a storici di tale caratura
che del rapporto degli italiani con la guerra fu possibile scrivere storie
più adeguate alla complessità dell’oggetto, e quindi più complesse, e
complete. Storie senza tanti eccezionalismi, eppure in grado di far
emergere le particolarità nelle quali gli italiani si erano battuti: ora
perdendo ora vincendo, ora morendo ora sopravvivendo, sempre patendo
(e facendo patire), perché dulce bellum inexpertis.
Ricerca storica
A fronte di un passato così complesso, non rischiarato e semplificato
– almeno per gli ultimi secoli – da una sola, lunga e unilineare
storia di un unico stato nazionale, gli storici italiani specializzati in
queste tematiche sono sempre stati relativamente pochi. Inevitabile guardare, anche per cercare maestri, fuori d’Italia (complicazione
ulteriore che però ha precocemente internazionalizzato gli storici militari
italiani, o almeno i migliori fra essi).
Il francese André Corvisier, ad esempio, per quell’età moderna che più di altre aveva praticato (ma il discorso non cambia per l’età antica o per quella medievale, o per quella contemporanea), ha insistito sul fatto che guerra e società sono intrinsecamente legate. Si è progrediti così dalla politica di Delbrück, all’inizio del Novecento, alla società di Corvisier, alla sua metà, sino alla cultura di oggi: da allora l’innovazione storiografica non si è più
fermata. Anche per chi scrive la Kriegsgeschichte e non ama i war and
society studies la storia militare non è più histoire-bataille.
La politica, l’economia, la cultura, la composizione sociale degli eserciti in cui gli italiani hanno militato, e in genere gli anni di pace, sono quindi considerati oggi non meno importanti degli scontri e delle battaglie, e degli anni di guerra. Un altro grande storico, il britannico Michael Howard, ha sintetizzato e perfezionato lo stesso insegnamento, aggiungendo che solo la storia della guerra e delle forze armate così scritta può essere di qualche utilità tanto al professionista militare che deve perfezionarsi nel proprio mestiere quanto al cittadino e al civile che invece la guerra vuole limitare, se non abolire.
A tali e ad altre simili fonti hanno tratto ispirazione in Italia quegli storici e quelle storiche che, negli ultimi cinquant’anni, hanno rinnovato l’immagine e la sostanza della ricerca storico-militare.
Il libro
I volumi della serie si propongono di offrire una sintesi del rapporto millenario degli italiani con la guerra, con il mestiere della guerra, con le istituzioni militari. Ne sondano – dall’età antica all’età medievale, dall’età moderna all’età contemporanea – i diversi percorsi, le complesse risultanze, i tanti aspetti. Nelle pagine si incontrano quindi le battaglie e le armi, così come la politica e la strategia, l’economia (il «nerbo della guerra», si diceva) e la logistica («un esercito marcia sul proprio stomaco»), la concreta solidità delle fortificazioni e l’aulicità delle opere d’arte che ritraggono – o cantano – guerre e soldati. Nei volumi della serie c’è la guerra di terra così come quella di mare, non meno decisiva e comunque significativa per gli abitanti di una penisola proiettata nel Mediterraneo.
C’è infine la guerra nella terza dimensione, a partire dalla sua nascita, e c’è la guerra delle informazioni, almeno da quando essa è stata istituzionalizzata. Ci sono poi i vari compiti di mantenimento dell’ordine interno, perché in tempo di pace i militari non solo si preparano alla guerra, ma servono il potere politico (il signore, il principe, lo stato) per governare le frontiere e per impedire che le popolazioni si sollevino contro l’ordine costituito.
Nei volumi della serie si porta ai comandati la stessa attenzione rivolta ai comandanti. È da tempo tramontata la stagione in cui la storia militare era solo storia dei grandi generali, delle loro strategie e delle “loro” battaglie, perché senza la diretta presenza dei soldati e dei combattenti nessuna guerra sarebbe possibile. E, nei limiti del possibile, si cerca di portare ai civili l’attenzione dovuta: perché è dalle loro file che escono i militari, perché è grazie ai loro sforzi che alle forze armate viene devoluto un bilancio e perché è purtroppo su di essi che il peso della guerra si abbatte.
La storiografia italiana non conosceva una storia militare delle relazioni fra gli italiani, le loro forze armate e le loro guerre di una simile ampiezza, in quattro volumi che rimontano dunque al più lontano passato greco-romano per risalire attraverso il lungo millennio medievale, solcando poi i complessi secoli della storia moderna sino a giungere alla recente storia contemporanea, fino alla più attuale contemporaneità.
Autorevolissimi studiosi, prima di queste pagine, avevano prodotto importanti monografie e persino fondamentali sintesi per ognuna delle età qui ricordate, ma non c’era un quadro d’assieme. E soprattutto non c’era a firma di studiosi specialisti, operanti nelle università: quella che invece è altra caratteristica della serie. Nonostante la sua ampiezza, alcune scelte dovevano essere compiute. Ne rendono conto i curatori dei singoli volumi, che hanno lavorato nella massima autonomia, nel quadro di un disegno comune: mirare a offrire, nei limiti di un volume, un’introduzione complessiva aggiornata storiograficamente e metodologicamente.
La storia – gli storici lo sanno – non è magistra vitae. Ma la sua conoscenza può essere utile. In un campo che troppo a lungo, anche se oramai non più, è stato un monopolio di uomini, conviene forse riportare le parole di una donna che, nel 1933, rifletteva sull’importanza di studiare e capire la catastrofica guerra mondiale da pochi anni conclusa.
Scriveva Simone Weil: «La situazione attuale e lo stato d’animo che essa suscita riportano ancora una volta all’ordine del giorno il problema della guerra. Si vive attualmente nella continua attesa di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma il sentimento del pericolo esiste, e ne costituisce un fattore non trascurabile […] Se non facciamo uno sforzo serio di analisi, rischiamo, in un giorno prossimo o lontano, di farci cogliere dalla guerra impotenti non solo ad agire, ma anche a giudicare».
Sia pure in un’età disordinata quale è la nostra contemporaneità, non pare che gli italiani siano alle soglie di un’ulteriore così disastrosa conflittualità. Anzi, come per gran parte degli europei, è proprio la distanza ormai più che settantennale dall’ultimo grande conflitto armato a costituire una delle difficoltà maggiori per le italiane e per gli italiani di oggi a “pensare la guerra”, a capire la storia delle forze armate, a conoscere la storia militare. Pur nei limiti della scrittura di una storia rigorosa e scientifica, forse anche questo potrebbe essere un contributo dei volumi della serie.
Il testo in queste pagine è estratto dal nuovo libro a cura di Nicola Labanca: Guerre ed eserciti nell’età contemporanea, edito da il Mulino (2022).
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