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Come durante le prime fasi del Covid-19, la guerra in Ucraina ha mostrato ancora una volta come il cibo sia una delle commodities più interconnesse al mondo, con catene di approvvigionamento sempre più lunghe, opache e complesse.
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Shock improvvisi come una pandemia o una guerra possono esporre le regioni più povere e marginalizzate a delle conseguenze socio-economiche drammatiche, che possono minare la stabilità politica dei governi.
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In questo contesto, occorre a tutti i costi evitare di ripetere gli errori commessi in passato, in particolare durante la crisi del 2007-2008 e che in parte si sono riproposti nelle prime fasi della pandemia.
Negli ultimi mesi in molti si sono giustamente concentrati sugli effetti che la guerra in Ucraina è destinata ad avere sul prezzo delle materie prime, in primis quelle energetiche. La guerra tuttavia è destinata a produrre delle ripercussioni importanti per la sicurezza alimentare globale. Il conflitto coinvolge infatti due paesi che negli ultimi tre anni hanno esportato più di un terzo del grano e più del 60 per cento dell’olio di semi di girasole a livello globale, e ha già provocato un aumento dei prezzi delle derrate alimentari.
Nel mese di marzo, il prezzo del grano sui mercati globali è aumentato del 50 per cento rispetto a febbraio e dell’80 per cento rispetto al 2021, mentre il prezzo del mais è aumentato di quasi il 40 per cento in un anno. Non stupisce quindi che il Food Price Index sviluppato dalla Fao, che monitora le variazioni mensili dei prezzi delle derrate alimentari sui mercati globali, abbia raggiunto i 159,3 punti a marzo, in crescita del 12,6 per cento rispetto a febbraio e del 33,6 per cento rispetto a marzo 2021.
La paura maggiore è che l’aumento dell’inflazione e dei prezzi delle materie prime, unita a possibili blocchi nelle esportazioni di grano e fertilizzanti, possa causare un aumento eccessivo dei prezzi nelle regioni più povere e in particolare in Africa, colpendo paesi già fortemente colpiti dagli ultimi anni di pandemia. Basti pensare soltanto che più del 65 per cento delle importazioni di grano del Senegal provengono da Russia e Ucraina, e queste cifre raggiungono valori del 90 per cento per alcuni paesi dell’Africa orientale.
La guerra del grano
Sebbene al momento non ci sia il rischio che il mondo rimanga a secco di grano, dal momento che altri paesi potrebbero compensare le ridotte esportazioni di Russia e soprattutto Ucraina, la guerra espone i paesi che importavano grano da Mosca e Kiev a un aumento dei costi, che in situazioni di persistente fragilità economica rischia di diventare esplosivo.
Secondo le prime stime, i paesi maggiormente esposti a questi shock si trovano in medio oriente e nord Africa e sono rappresentati da Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Turchia, Tunisia e Yemen. Questi ultimi due risultano particolarmente vulnerabili dal momento che importano rispettivamente più di un terzo e circa la metà dei cereali da Ucraina e Russia. Inoltre altri paesi come la Libia sono particolarmente a rischio, dal momento che quest’ultima importa circa il 90 per cento dei cereali dall’estero e che Ucraina (per il 40 per cento) e Russia (per il 15 per cento) costituiscono le principali fonti di approvvigionamento.
Infine, la guerra sul grano può avere conseguenze importanti per altri paesi africani come l’Egitto, che importa dalla Russia e dall’Ucraina l’85 per cento del suo grano e il 73 per cento di olio di girasole, e la Somalia dove quasi 4 milioni di persone si trovano già in una situazione di insicurezza alimentare.
Il costo dei fertilizzanti
La guerra sta poi avendo un effetto molto importante sul costo dei fertilizzanti, già colpiti da una serie di restrizioni alle esportazioni imposte dalla Cina nel 2021. Il prezzo era salito anche a causa dell’aumento del costo del greggio o di altre materie prime come l’urea, il fertilizzante azotato più usato al mondo, il cui prezzo era quasi triplicato solo nel 2021.
Nei prossimi mesi, i prezzi dei fertilizzanti sono destinati ulteriormente ad aumentare per via dell’aumento del costo dell’energia e in particolare del gas naturale, con conseguenze importanti per i produttori agricoli. La Russia e la Bielorussia rappresentano circa un quinto delle esportazioni globali di fertilizzanti. Pertanto restrizioni alle esportazioni o un aumento dei prezzi andranno a impattare significativamente sulla produttività, e quindi sul reddito dei piccoli produttori e delle comunità agricole più povere che rischiano di cadere in un vortice pericoloso di povertà e malnutrizione.
Secondo alcuni analisti, una riduzione o una cessazione delle importazioni di fertilizzanti dalla Russia può anche rappresentare un’importante occasione di riscatto per alcuni paesi africani. La Nigeria per esempio ha il potenziale di sostituirsi alla Russia, anche grazie alla sua disponibilità di gas naturale e alla recente costruzione di alcune fabbriche di fosfati in collaborazione con il Marocco. Non sarà però semplice affrancarsi totalmente da Mosca per altre materie prime come il potassio, dal momento che i paesi dell’Africa occidentale importano circa l’82 per cento del potassio da Russia e Bielorussia.
Sostenibilità per la pace
Come durante le prime fasi del Covid-19, la guerra in Ucraina ha mostrato ancora una volta come il cibo sia una delle commodities più interconnesse al mondo, con catene di approvvigionamento sempre più lunghe, opache e complesse. Pertanto shock improvvisi come una pandemia o una guerra possono esporre le regioni più povere e marginalizzate a delle conseguenze socio-economiche drammatiche, che possono minare la stabilità politica dei governi, come successo con le “rivolte del pane” della scorsa decade.
In questo contesto, occorre a tutti i costi evitare di ripetere gli errori commessi in passato, in particolare durante la crisi del 2007-2008 e che in parte si sono riproposti nelle prime fasi della pandemia.
In primo luogo, gli stati e la comunità internazionale devono trovare delle soluzioni diplomatiche per evitare che paesi esportatori decidano di imporre delle restrizioni alle esportazioni di materie prime, tra cui prodotti agricoli o fertilizzanti. In secondo luogo, i paesi più ricchi devono sostenere i paesi importatori più poveri che non hanno lo spazio fiscale sufficiente per lanciare programmi di protezione sociale che tutelino i gruppi più vulnerabili della popolazione. Il Covid-19 ha esposto i paesi più poveri a una crisi del debito senza precedenti, e la Banca mondiale stima che più di metà dei paesi a medio e basso reddito si trovi in una situazione di alto rischio finanziario.
Infine, la guerra in Ucraina offre (l’ennesima) chance di ripensare totalmente il sistema dei sussidi agricoli su prodotti come il petrolio o gli stessi fertilizzanti. Le politiche di sussidio degli ultimi decenni si sono rivelate non solo molto costose per i bilanci statali, ma hanno impedito una transizione verso modelli di produzione agricola più efficienti, oltre che ecologicamente meno impattanti. Oggi i sussidi agricoli valgono circa 540 miliardi di dollari all’anno, una cifra enorme che deve essere re-indirizzata per sostenere sistemi alimentari più resilienti e in grado di fornire cibo sano e nutriente per tutti.
In un mondo in cui il cibo è costantemente messo in pericolo da guerre e disastri climatici, i governi, il settore privato, la ricerca, le comunità locali devono cooperare per individuare soluzioni innovative che affrontino le fragilità di oggi, senza minare gli obiettivi di sostenibilità del domani. Il sistema alimentare mondiale è in crisi da decenni ma è perfettamente in grado di produrre cibo di qualità e in quantità sufficiente per sfamare i bisogni di una popolazione crescente, usando meno terra, acqua e fertilizzanti. Investire in sistemi alimentari più sostenibili significa quindi investire nella pace e nello sviluppo equo di tutti.
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