- La guerra in Ucraina ha creato tensioni e fratture all’interno di quasi tutti i partiti politici occidentali. Nell’emisfero occidentale, il caso forse più eclatante di questa spaccatura interna è quello del partito repubblicano americano. Ciò a causa, soprattutto, delle oscillazioni di Donald Trump.
- È evidente che un numero schiacciante di repubblicani non approvi la gestione di questa crisi da parte di Biden, ma ciò non implica in automatico che gli elettori repubblicani siano pro-Putin.
- Piuttosto, nel cuore pulsante del partito repubblicano, fin dalla sua fondazione, c’è un intenso sentimento di nazionalismo americano. A seconda degli eventi internazionali, della leadership politica e dei vincoli politici interni, i repubblicani, come la maggior parte degli americani, hanno oscillato tra attivismo internazionale e politica del “non intervento”. Il testo è parte del nuovo numero di Scenari, scopri quali sono gli altri contributi. Per leggerli tutti è possibile abbonarsi qui.
La guerra in Ucraina ha creato tensioni e fratture all’interno di quasi tutti i partiti politici occidentali. Non tanto e non solo divisioni tra diversi schieramenti, ma tendenze spesso trasversali che attraversano la politica. Nell’emisfero occidentale, il caso forse più eclatante di questa spaccatura interna è quello del partito repubblicano americano. Ciò a causa, soprattutto, delle oscillazioni di Donald Trump: dapprima scettico nei confronti della leadership ucraina e benevolente con l’intelligenza politica di Putin e dopo pochi giorni capace di assumere un tono di condanna intransigente dell’invasione russa.
Come quasi sempre, The Donald interpreta bene i mal di pancia e le ambiguità di quel partito. Una forza politica che vede da un lato i falchi, volti a rievocare l’impero del male russo di reganiana e bushiana memoria e a muoversi con decisione sul piano economico e bellico contro il Cremlino, e le colombe, vicine alla linea trumpiana di negoziazione con Putin finalizzata a sottrarre l’autocrate all’abbraccio della Cina, vera beneficiaria della definitiva de-occidentalizzazione russa.
Tuttavia, il ritratto che emerge da questo lato dell’oceano del grand old party è spesso quello di una formazione oramai filo-putiniana e isolazionista. La realtà, però, è diversa e consegna un quadro ben più sfumato. Ma è alla storia che bisogna rivolgersi per evitare di banalizzare.
Da Roosevelt a Pearl Harbor
Innanzitutto, fu un presidente repubblicano, Theodore Roosevelt, a dare un taglio internazionale e interventista alla politica estera americana, con la sua idea dell’esercizio di un “international police power” da parte degli Stati Uniti al fine di “mettere ordine” nell’America Latina, che in virtù di questo corollario fu teatro di numerosi interventi militari e politici di Washington all’inizio del Ventesimo secolo.
Dopo la Prima guerra mondiale, il presidente democratico Woodrow Wilson offrì un’alternativa fondamentale alla tradizione della politica estera americana proiettando l’azione del nuovo colosso fuori dal proprio continente. Egli legittimò la sua decisione di entrare in guerra col proposito non solo di aiutare a sconfiggere militarmente la Germania, ma anche di guidare la creazione di un ordine globale trasformato, caratterizzato da governi democratici, autodeterminazione nazionale, sicurezza collettiva, accordi commerciali aperti, libertà dei mari, organizzazione internazionale multilaterale, risoluzione pacifica delle controversie e disarmo generale.
La grande innovazione di Wilson consisteva nell’idea che solo attraverso impegni multilaterali vincolanti, universali e formali si potessero rivendicare i valori americani, liberali e progressisti, in tutto il mondo. In questo processo il presidente democratico si disinteressò però dell’obiettivo di mantenere un “equilibrio di potere”, soprattutto nella placca euroasiatica. Alla fine, il Senato degli Stati Uniti si rifiutò di approvare il Trattato di Versailles e il coinvolgimento diretto del paese nella Società delle nazioni, ma Wilson aveva posto un marchio ideologico che non sarebbe scomparso. La visione wilsoniana sarebbe diventata una forza animatrice della politica estera americana, a livello politico e internazionale, nel corso del secolo.
I repubblicani, da parte loro, espressero fin dall’inizio serie preoccupazioni sulla visione internazionalista liberale di Wilson, soprattutto per i possibili riverberi interni. Ancora una volta il partito fu scosso da una spaccatura. In particolare, i repubblicani erano divisi tra chi alimentava forme di nazionalismo conservatore, sulla traiettoria evolutiva del pensiero di Teddy Roosevelt, e chi voleva mantenere un atteggiamento non-interventista rispetto a questioni che non erano di stretto interesse americano.
Il risultato finale del dibattito sul Trattato di Versailles fu essenzialmente una vittoria dei non-interventisti, le colombe, guidati dal senatore Robert LaFollette. Questa prudenza non interventista avrebbe caratterizzato l’orientamento del partito per i successivi vent’anni. Poi i repubblicani si divisero di nuovo, con una parte che sosteneva la necessità di sostegno degli Stati Uniti alla Gran Bretagna contro la Germania nazista e l’altra parte che si opponeva.
L’attacco giapponese a Pearl Harbor questa volta risolse quel dibattito a favore dei falchi del partito, portando il paese alla guerra e alla vittoria.
Anti-comunismo e guerra al terrore
L’ascesa dell’Unione sovietica dopo la Seconda guerra mondiale rafforzò il predominio dei falchi intorno al concetto di “sicurezza nazionale”. I rigorosi non-interventisti furono emarginati dal partito. Ma in realtà, ciò che legittimava il nazionalismo conservatore, più che una chiara visione strategica o una spontanea popolarità, era un feroce anticomunismo alimentato dalla logica competitiva tra potenze. Nessun presidente repubblicano del dopoguerra ha potuto ignorare completamente la forza unificante del nazionalismo conservatore in chiave anti-sovietica. Il modo in cui lo fecero variò considerevolmente da un presidente all’altro, ma l’incorporazione di questo “interventismo” nell’offerta politica fu fondamentale per la vittoria elettorale. Nel corso della Guerra fredda, l’isolazionismo di destra non pagava sul piano politico.
Con la fine della Guerra fredda, l’avvio della globalizzazione e costi più gravosi sia bellici che economici per l’impero americano, una frangia repubblicana non interventista riemerse nel dibattito politico, guidata dal conservatore sociale Pat Buchanan, da un lato, e dal libertario Ron Paul, dall’altro. Anche se all’epoca sembravano marginali, nel lungo periodo queste voci – e quella di Buchanan, in particolare – si rivelarono influenti e radicate.
Il presidente George W. Bush, dopo l’11 settembre, riuscì a raggruppare una vasta maggioranza del grand old party intorno alla politica di guerra al terrore, sfociata poi nell’invasione dell’Iraq del 2003, dopo quella dell’Afghanistan, e in un “programma di libertà” per il medio oriente. Ma le difficoltà in Iraq hanno eroso la legittimazione di quel programma, e una volta che Bush ha concluso l’incarico, il partito si è nuovamente spaccato in due cordoni.
Visione ibrida
Nel 2016, Donald Trump, con il suo populismo, ha approfittato di queste divisioni per fare ciò che in precedenza sembrava impossibile: rovesciare il dominio dei falchi della politica estera in favore di approcci più duttili e compromissori. Nei fatti la politica estera dell’amministrazione Trump, è stata un ibrido di queste due tendenze: da un lato il ritorno del protezionismo verso la Cina e le pressioni sull’Unione europea; dall’altro il ritiro progressivo da alcuni teatri e il tentativo di ribilanciamento della Nato. Una confluenza tra due orientamenti che neppure Biden ha potuto ignorare, muovendosi di fatto in continuità con il predecessore. Poi è arrivata l’invasione russa e il precario equilibrio dei repubblicani è tornato a oscillare.
È evidente che un numero schiacciante di repubblicani non approvi la gestione di questa crisi da parte di Biden, ma ciò non implica in automatico che gli elettori repubblicani siano pro-Putin. La maggior parte degli elettori del partito afferma di disapprovare la politica di Biden in Ucraina in quanto non ha fatto abbastanza per respingere l’aggressione russa. Secondo un sondaggio del Pew research center pubblicato il 15 marzo, il 54 per cento dei repubblicani sosteneva che sarebbe stata opportuna una maggior deterrenza. Un altro 21 per cento affermava invece che il presidente avesse agito bene, mentre solo il 9 per cento condannava Biden per eccesso di interventismo contro la Russia.
Circa tre quarti dei repubblicani si sono inoltre detti favorevoli alle spedizioni di armi americane in Ucraina, a rigorose sanzioni economiche, al divieto di importazione di petrolio russo e al sequestro di beni agli oligarchi russi. E secondo un sondaggio Gallup pubblicato il 14 marzo, solo il 15 per cento degli americani guarda con favore alla Russia di Putin. Gran parte dei democratici e dei repubblicani rispondono entrambi allo stesso modo. Non vi è una reale differenza tra partiti su questo tema.
Sfumature interne
Nonostante ciò, la maggior parte degli elettori repubblicani che non sono d’accordo con la politica estera di Biden, come la maggior parte dei rappresentati eletti dal partito, non sono da considerarsi né guerrafondai né isolazionisti a prescindere. Piuttosto, nel cuore pulsante del partito repubblicano, fin dalla sua fondazione, c’è un intenso sentimento di nazionalismo americano. A seconda degli eventi internazionali, della leadership politica e dei vincoli politici interni, i repubblicani, come la maggior parte degli americani, hanno oscillato tra attivismo internazionale e politica del “non intervento”. Una costante dei repubblicani, tuttavia, è stata una gelosa custodia della sovranità nazionale degli Stati Uniti e la necessità di preservare la libertà di azione (e non azione) dell’America negli affari internazionali.
Alcuni osservatori, di destra e di sinistra, sembrano sconcertati dalla reazione degli elettori repubblicani nei confronti della guerra russa in Ucraina. C’è chi li voleva più isolazionisti e chi più interventisti, mentre al netto delle dichiarazioni di Trump o di qualche deputato ciò che prevale è un sentimento di moderazione. I repubblicani si mostrano favorevoli ad aiutare l’Ucraina, comprendendo che potrebbero essere in gioco interessi più ampi del conflitto in sé sia sul piano valoriale che negli equilibri mondiali del potere. Allo stesso tempo, però, la maggior parte degli americani, inclusa la maggior parte dei repubblicani, vorrebbe evitare una guerra aperta contro l’altra principale potenza nucleare.
Non si tratta, anche in questo caso, di preoccupazioni irragionevoli. Chi vedeva la crisi ucraina come un ritorno in grande stile dei neo-con, la corrente interventista, e chi si aspettava un’ulteriore sterzata isolazionista, è destinato per ora a restare deluso. Il quadro è ancora incerto, variegato e soprattutto “moderato” e gli elettori repubblicani sono meno inclini a sbilanciarsi da un lato o dall’altro di quanto si riesca percepire dall’esterno. E non è affatto detto che questo sia un male per il resto del mondo.
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