- Quello di Nelly, come di tanti ucraini che scappano dal loro paese invaso dai russi, è un viaggio duro e pericoloso, al freddo, pigiata su treni o autobus. Fino a poco tempo fa inimmaginabile per una donna sola e anziana.
- In queste settimane di calvario per l’Ucraina la Polonia è teatro forse della più grande operazione di accoglienza ai profughi dalla fine della Seconda guerra mondiale.
- La democrazia europea spaventa la leadership russa. Nell’impegno generoso e creativo di tanti europei che accolgono i rifugiati ucraini, si intravvede quel legame di pace che fonda le basi dell’Europa democratica.
Nelly viveva sola in una cittadina vicina alla centrale nucleare di Zaporizhzhia che, com’è noto, è stata bombardata all’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. Alla sua età aveva difficoltà a scendere le scale verso il rifugio perché cammina a stento a causa di problemi alle gambe. Ogni giorno Nelly descriveva al telefono alla figlia, emigrata da anni in Italia, la paura che la guerra provoca, fatta di fischi delle sirene, che penetrano come un trapano il cervello, e degli orribili boati delle bombe che squarciano cielo e terra. Piangeva tanto e, dopo l’ennesima notte di terrore, si è finalmente lasciata convincere a mettere la sua vita in una valigia e raggiungere la frontiera con il primo trasporto utile.
Ha raccontato poi di non aver potuto trattenere le lacrime mentre chiudeva a chiave la porta di casa, chiedendosi se mai avrebbe potuto rivederla. Come tanti altri Nelly si è fatta coraggio e si è immersa con le sua gambe malferme nel fiume di profughi in viaggio verso la salvezza.
Un viaggio duro e pericoloso, al freddo, pigiata su treni o autobus, fino a quel momento inimmaginabile per una donna sola e anziana. Arrivati a Chełm, primo avamposto polacco passato il confine, Nelly ha visto le giovani donne ucraine con cui aveva condiviso lo scompartimento ritrovare incredibilmente vigore dopo oltre un giorno e una notte in treno: tutte gettavano i bagagli dal finestrino e si affrettavano a scendere, trascinando i figli mezzo addormentati quasi fossero bagagli.
Forse le donne non volevano far aspettare chi le attendeva al binario o avevano fretta di imboccare la strada che le avrebbe condotte verso una nuova vita. Ma nella piccola stazione affollata Nelly non conosce nessuno, si perde e si dispera pensando con rimpianto alla sua casa lontana e alla figlia che non riesce a raggiungere.
Katerina cerca la sua “babushka”
All’altro capo d’Europa, a Bologna, sua nipote Katerina sta guardando sconsolata le notizie alla tv, in pensiero per la sua “babushka”. Tra le notizie, tragiche, dell’inasprimento dei bombardamenti e i tanti fallimenti delle evacuazioni umanitarie dei civili, decide di chiedere aiuto per indicare a sua nonna come muoversi.
Katerina si mette in contatto con la Comunità di sant’Egidio che sta operando con i rifugiati alla frontiera slovacca e in Polonia: l’ha visto alla televisione. Al centralino di Roma le passano un volontario, Eugenio, professore di matematica in pensione, che parla russo, ha passato una vita ad aiutare gli anziani fragili e ha esperienza anche di un’altra guerra simile, quella del 2008 in Georgia.
Consiglia a Katerina di far aggregare la nonna ad un gruppo di persone che dalla frontiera si sta spostando in treno a Lublino e poi a Varsavia. Finalmente Nelly riceve le indicazioni, sale su quel treno e giunge nella capitale polacca.
I volontari si fanno trovare al binario con indosso la pettorine con l’arcobaleno e la colomba della pace. È notte e fa freddo, portano subito Nelly nella Casa delle sorelle, due ex senza dimora aiutate anni fa ad uscire dalla vita in strada e che ora si offrono a loro volta di aiutare.
Si prendono cura di Nelly, le preparano qualcosa di caldo da mangiare, la consolano perché piange e non capisce cosa succede a causa della lingua. Intanto viene organizzato il trasporto per l’Italia.
Prima di partire in pullman Nelly riceve una visita inattesa: quella di Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, venuto alla frontiera slovacco-ucraina e a Varsavia per incontrare i volontari e manifestare solidarietà verso i rifugiati ucraini. Ora Nelly è al sicuro nel nostro paese.
L’arca di Noè
La sua storia è quella di migliaia di donne ucraine che stanno fuggendo dal loro paese e trovano rifugio nei paesi dell’Unione europea. Da alcuni anni il colonnato del Bernini in piazza san Pietro è arricchito da un’opera imponente in bronzo dell’artista canadese Timothy Schmalz: Angels Unawares.
Si tratta di una moderna arca di Noè che al posto delle vele ha due ali spiegate di angelo: anziani, bambini, donne, uomini di ogni ceto sociale e provenienza, accalcati sulla barca, coi loro vestiti di diversa foggia, fagotti, zaini o valigie e con gli occhi che fissano supplici il cielo o i passanti o anche socchiusi ad implorare la terra e il mare di salvarli.
Papa Francesco ha voluto quest’opera come segno dell’accoglienza agli stranieri che fuggono e Timothy Schmalz ha creato una rappresentazione plastica di quanto il papa va ripetendo da inizio della pandemia e che forse adesso, in questi tempi di guerra, abbiamo finalmente compreso: “Siamo sulla stessa barca”.
Chi vi sale diventa angelo: alcuni come rifugiati, altri come quelli che accolgono. La Bibbia, invitando all’accoglienza degli stranieri, dice che alcuni «praticando l’ospitalità, senza saperlo hanno accolto degli angeli».
Teatro dell’accoglienza
Come nei dipinti di Chagall, nato a pochi chilometri dai quei luoghi ora squassati dalle bombe, gli angeli sono visibili e trasformano la realtà. In queste settimane di calvario per l’Ucraina la Polonia è teatro forse della più grande operazione di accoglienza ai profughi dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La gente della Polonia sta dimostrando spontaneamente una solidarietà quasi senza limiti, malgrado il governo di Varsavia quasi non coordini tale immenso sforzo. Molti polacchi sono convinti dell’inutilità degli sforzi diplomatici e pensano che sarebbe giusto che l’occidente (quindi anche il loro paese) intervenga direttamente con le armi nel conflitto. Ma questo significherebbe guerra mondiale.
Niente è ineluttabile: né la guerra e nemmeno la pace. A tale riguardo è utile ricordare che la Guerra fredda, che numerosi “sovietologi” prevedevano dovesse finire con un nuovo conflitto armato, terminò con le rivoluzioni pacifiche del 1989 e la caduta del muro.
La democrazia spaventa la Russia
In realtà il potere sovietico di Brežnev, prima che Gorbaciov lo cambiasse dall’interno, aveva più paura delle parole di Giovanni Paolo II e del sindacato Solidarność che degli eserciti nemici.
Ancora oggi la democrazia europea spaventa la leadership russa. Nell’impegno generoso e creativo di tanti europei che accolgono i rifugiati ucraini, si intravvede quel legame di pace che fonda le basi dell’Europa democratica.
Così nasce l’Europa unita: un sogno pacificatore che da diversi ci rende vicini. Più che dalla guerra, le nostre fondamenta comuni vengono da questo sforzo. Per tornare a sperare nel domani, oggi occorre trovare il modo di comunicarlo anche al popolo russo.
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