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Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno dello scorso 23 dicembre, Vladimir Putin era tornato a citare – come fatto di sovente nella sua carriera – l’evento “madre” di tutti i fraintesi nei rapporti tra il Cremlino e la Casa bianca.
- L’immagine del “tradimento” della promessa del non-allargamento della Nato è stata utilizzata dal presidente russo come cornice generale all’interno della quale iscrivere le mosse compiute in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014 nonché la guerra in corso contro l’Ucraina.
- Ma tale narrativa presenta evidenti fragilità, anche qualora non si voglia prestare credito al diniego di diplomatici e politici americani di aver mai assunto qualche obbligo in tal senso con la controparte sovietica.
«Ricordiamo come negli anni Novanta ci avete promesso che (la Nato) non si sarebbe spostata di un pollice a est». Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno dello scorso 23 dicembre, Vladimir Putin era tornato a citare – come fatto di sovente nella sua carriera – l’evento “madre” di tutti gli equivoci nei rapporti tra il Cremlino e la Casa Bianca. Ovvero, quel fatidico «not an inch to the East» pronunciato dall’allora segretario di Stato americano James Baker nel corso di un incontro con Mikhail Gorbachev nel febbraio 1990.
L’immagine del “tradimento” della promessa del non allargamento della Nato è stata utilizzata dal presidente russo come cornice generale all’interno della quale iscrivere le mosse compiute in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014 nonché la guerra in corso contro l’Ucraina. Ma tale narrazione presenta evidenti fragilità, anche qualora non si voglia prestare credito al diniego di diplomatici e politici americani di aver mai assunto qualche obbligo in tal senso con la controparte sovietica.
Elementi di debolezza
La prima fragilità affligge l’origine stessa del presunto impegno degli Stati Uniti. Questo, infatti, non trova fondamento in un accordo scritto o in un trattato ma solo in una battuta, seppur fatta tra esponenti politici di altissimo livello.
Non si dimentichi, peraltro, che essa rappresenta solo un frammento nell’ambito di un ciclo di colloqui che – come ammesso anche da Gorbachev – verteva esclusivamente sul “problema” della riunificazione tedesca. Non figurava tra gli scopi dei vertici Usa-Urss del 1990, infatti, il raggiungimento di alcun accordo sul futuro dell’Alleanza atlantica, come confermato dall’assenza di riferimenti a esso nel Trattato sullo stato finale della Germania siglato a Mosca nel mese di settembre.
Il secondo elemento di fragilità della narrazione putiniana chiama in causa il modus operandi internazionale della Russia. Quand’anche si accettasse che lo “spirito” dei colloqui del 1990 andava nella direzione del non allargamento, sembra incredibile che un freddo Realpolitiker come il presidente russo si meravigli della loro disapplicazione a decenni di distanza.
Assumendo le lenti interpretative del realismo, gli accordi tra stati – per via della struttura anarchica del sistema internazionale – non possono essere slegati dalle condizioni materiali da cui scaturiscono. Il venir meno di queste ultime, infatti, costituisce la ragione della loro eventuale inosservanza da parte dei contraenti.
Va da sé che nel giro di un paio di anni il mondo del 1990 era svanito improvvisamente. Già a fine 1992, da ambo le parti, i protagonisti dei colloqui che posero fine alla Guerra fredda erano usciti dalla scena politica. Washington, inoltre, aveva risolto i dubbi sul suo futuro impegno in Europa in assenza di un competitor strategico con la pubblicazione del Concetto strategico Nato del 1991, il primo pubblicato nel post Guerra fredda.
La Russia di Boris Eltsin, nel frattempo, aveva accettato di buon grado il sostegno diplomatico ed economico degli Stati Uniti in cambio di una sostanziale acquiescenza nei confronti del loro primato globale. E, soprattutto, erano scomparse dallo scacchiere internazionale sia il Patto di Varsavia che l’Unione sovietica.
Piaccia o meno il principio “pacta sunt servanda, rebus sic stantibus”, non è comunque possibile negarne il peso che esercita sugli accordi formali tra le grandi potenze e, tanto più, su quelli informali. La Russia, d’altro canto, non si è mai fatta scrupolo di applicarlo quando le è tornato utile.
Come nel caso della stessa invasione dell’Ucraina, avvenuta in palese violazione del memorandum di Budapest del 1994 con cui Mosca si impegnò a rispettare l’integrità territoriale dell’Ucraina e ad astenersi dall’uso della forza nei suoi confronti in ragione del trasferimento del suo arsenale nucleare in Russia. Ancor meno, ha avuto problemi a disattendere le reiterate promesse di non ricorrere all’opzione militare contro Kiev fatte dai suoi vertici politici prima del 24 febbraio.
La politica di Bill Clinton
Anche per la fase successiva alla svolta del 1991-1992, infine, non sembra reggere la narrativa del Cremlino secondo cui l’Alleanza atlantica con gli allargamenti del 1999 e del 2004 avrebbe innescato un gioco a somma zero con la Russia, sfruttandone la “distrazione” determinata dagli sconquassi interni con cui si trovava alle prese.
L’amministrazione Clinton, al contrario, rifletté a lungo sul dilemma posto da due interessi inconciliabili. Da un lato, quello di mantenere agganciata all’ordine internazionale liberale la Federazione russa, che vedeva con sospetto l’ipotesi di adesione alla Nato dei suoi ex satelliti. Dall’altro, quello di soddisfare le legittime aspirazioni alla membership di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, che avevano dimostrato di procedere speditamente verso mete “liberali” quali l’economia di mercato e la democrazia.
Durante il suo primo mandato, Bill Clinton scelse di fatto la prima opzione. Nel 1993 sostenne il lancio dell’ecumenico programma “Partnership for peace” della Nato per l’Europa orientale e gli stati post sovietici. Questo fu immediatamente seguito da una visita a Mosca del nuovo segretario di Stato, Warren Christopher, il quale spiegò a Eltsin che l’eventuale allargamento avrebbe dovuto intendersi come un processo evolutivo e di lungo termine.
Clinton finì così nel mirino dei governi polacco, ceco e ungherese che lo accusavano di perseguire una politica del “Russia first”. Per questa ragione, si affrettò a organizzare una visita a Praga, dove chiarì che non era l’allargamento a essere in discussione, ma solo la sua tempistica.
Inversione di rotta
Fu solo dopo le presidenziali russe del 1996 che gli Stati Uniti invertirono la rotta. La figura di Eltsin, a cui tutto il mondo occidentale aveva aperto una linea di credito politico illimitata negli anni precedenti, ne uscì delegittimata nonostante la vittoria. Non solo.
Questa fase fece intravedere i pericoli posti dalla presenza in Russia di leader illiberali come Gennady Zjuganov e Vladimir Zhirinovsky e schiuse le porte all’ascesa dei famigerati “oligarchi”.
Di fronte a questo contesto, l’allargamento della Nato a est diventava funzionale per due ragioni. Quella di consolidare la capacità statuale e la democrazia nei nuovi paesi membri, scongiurando così le devastanti derive che si erano verificate in alcuni stati dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. E quella del contenimento di minacce emergenti, nel caso in cui la Russia fosse ricaduta in mani ostili all’occidente.
Il processo di allargamento, tuttavia, fu comunque pensato in modo da fornire delle contro-assicurazioni alla Russia, per renderla parte integrante del sistema di sicurezza in Europa. La firma dei protocolli di adesione di Varsavia, Praga e Budapest del 1997 fu preceduta da quella dell’Atto istitutivo delle relazioni Nato-Russia. Allo stesso modo, l’invito ad altri sette paesi ex comunisti nel 2002 prese forma solo dopo il summit di Pratica di Mare, in cui fu creato il Consiglio Nato-Russia per la gestione congiunta delle questioni di sicurezza di interesse comune.
In queste fasi, d’altronde, non furono gli allargamenti della Nato a rappresentare la principale fonte di tensione tra la Russia e gli Stati Uniti. Fu, piuttosto, l’indisponibilità americana a riconoscere a Mosca una “zona di influenza” a spingerla su posizioni sempre più apertamente revisioniste.
Le ferite lasciate dall’operazione Allied Force nel 1999 e dal successivo sostegno occidentale al rovesciamento del regime di Slobodan Milosevic, tuttavia, furono superate grazie alla ritrovata convergenza di interessi nella “global war on terror”. Il supporto americano alle “rivoluzioni colorate” tra il 2003 e il 2005, invece, alimentò il paranoico senso di accerchiamento e la voglia di rivincita dell’attuale élite russa, senza essere lenito sufficientemente dall’effimera parentesi del “Russian reset” obamiano.
Se al summit di Bucarest del 2008, tuttavia, le principali potenze europee non si fossero opposte alla richiesta americana di garantire ufficialmente a Kiev e Tbilisi l’accesso al Membership action plan della Nato, probabilmente non staremmo qui a discutere l’ipotesi della neutralità – o, peggio, della neutralizzazione – dell’Ucraina.
Forse i treni della storia non passano una volta sola ma, purtroppo per chi li perde, non sono neanche così frequenti.
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