- Il governo italiano ha dichiarato il suo sostegno alla mediazione dei negoziati tra Kiev e Mosca da parte della Santa sede. Pochi giorni fa, il cardinale Pietro Parolin ha chiesto alla Russia di riprendere il dialogo.
- Nella storia recente, i casi diplomatici della Santa sede hanno avuto esiti altalenanti: se è fallita la strategia negoziale di Parolin in Venezuela, è risultata vincente quella di papa Francesco a Cuba.
- Nel conflitto tra Russia e Ucraina, la risposta dell’Europa e la corsa al riarmo difensivo rendono incerti gli orizzonti diplomatici. Dietro la reticenza papale verso l’aggressione russa c’è un estremo tentativo di stemperare la crisi?
Dopo le comunicazioni in Senato e alla Camera del premier Mario Draghi sugli sviluppi della crisi ucraina, tra i punti della risoluzione votata dai partiti di maggioranza per chiedere un immediato cessate il fuoco e fermare l’illegittima invasione russa innescata da Vladimir Putin, è stata inserito anche l’impegno a «sostenere ogni iniziativa multilaterale e bilaterale utile a una de-escalation militare e alla ripresa di un percorso negoziale tra Kiev e Mosca, anche raccogliendo la disponibilità della Santa Sede a svolgere un’opera di mediazione».
Così, sullo sfondo del digiuno per l’Ucraina indetto oggi da papa Francesco nel giorno in cui i cattolici celebrano l’inizio della Quaresima, forte è l’auspicio politico che la Santa sede possa avere un ruolo nel favorire la fine della guerra.
Di questo ha parlato anche il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin nell’intervista inviata coram populo ad alcuni giornali italiani, rilanciando la disponibilità del Vaticano come facilitatore dei negoziati: «La Santa sede, che in questi anni ha seguito costantemente, discretamente e con grande attenzione le vicende dell’Ucraina, offrendo la sua disponibilità a facilitare il dialogo con la Russia, è sempre pronta ad aiutare le parti a riprendere tale via». Ma, visti i recenti accadimenti, sussistono le condizioni per risolvere la crisi?
La dottrina Parolin
Nell’intervista, Parolin parla di «dialogo» piuttosto che di «mediazione», anche alla luce della visita di papa Francesco all’ambasciata russa presso la Santa sede venerdì scorso, che alcuni in Vaticano definiscono tardiva, altri un tentativo di strappo alla consolidata prassi diplomatica vaticana.
In merito a questo il segretario di Stato vaticano ha rinnovato «l’invito pressante che il santo padre ha fatto a fermare i combattimenti e tornare al negoziato». Le dichiarazioni del porporato presumono che da tempo la Santa sede abbia intavolato un dialogo tra i due paesi.
Ma per capire il non-detto della strategia diplomatica sotto Parolin, occorre tornare al 2016, quando il segretario di Stato ha tentato senza successo di sbloccare lo stallo in cui s’erano impantanati i negoziati tra Nicolás Maduro e l’opposizione venezuelana, fino a quel momento condotti con grande sagacia da due arcivescovi diplomatici, Paul Emil Tscherrig e Claudio Maria Celli.
Quando la Santa sede ha intuito che tutto potesse naufragare, Parolin – che per quattro anni è stato nunzio apostolico in Venezuela – ha tentato di forzare le chiusure allo scopo di «promuovere il bene di ciascuno dei venezuelani» e «favorire una soluzione pacifica e democratica della crisi».
Nella missiva, approvata da papa Francesco, il porporato puntualizzava il ruolo della Santa sede: «Mi sembra anche fondamentale insistere che non è di “mediazione” ma di “facilitazione” o “accompagnamento”: ciò significa che sono le parti interessate a dialogare, raggiungere accordi e deliberare, anche se il rappresentante della Santa sede può e deve fare – e di fatto lo fa – proposte per introdurre distinzioni e sfumature che rilassano o sbloccano, suggeriscono nuovi percorsi o punti da esplorare, ricordano cose comuni o relegano nell'oblio altri inappropriati, ecc».
Parole chiare, che fanno leva sul dialogo tra le parti, il cuore di ogni negoziato: «Il dialogo è qualcosa di consustanziale all’essere umano, che è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza di essere relazionale che si sviluppa e raggiunge la sua perfezione attraverso l’incontro interpersonale. Ciò richiede che le persone che intendono dialogare abbiano una serie di disposizioni ed esigenze psicologiche, spirituali ed etiche». Eppure, fallito ogni tentativo di negoziato allora, si può sperare in un esito positivo nel conflitto russo-ucraino?
Negoziato in corso?
La dottrina Parolin in politica estera intercetta la Realpolitik di papa Francesco, che sul soglio di Pietro ha smorzato le sue posizioni del passato. Era, infatti, ancora arcivescovo a Buenos Aires quando, a trent’anni dal conflitto tra Argentina e Gran Bretagna con cui la premier Margaret Tatcher si era riappropriata delle isole Falkland al prezzo di quasi mille caduti, un Bergoglio smaccatamente malvinero non ha avuto paura di commemorare gli oltre seicento combattenti argentini come «i figli della patria che sono andati a difendere le loro madri, per reclamare ciò che era loro, parte della patria, che è stata usurpata».
Ma dal Rio de La Plata al Tevere è la diplomazia a definire scenari e parole, tanto che, un mese dopo la sua elezione, nel telegramma per la morte della Lady di ferro, Francesco ne ricordava «i valori cristiani e la promozione della libertà nella famiglia delle nazioni».
Qualcuno si è domandato perché papa Francesco, a cinque giorni dall’invasione dell’Ucraina, non abbia menzionato né la Russia né Putin, come fatto da tanti capi di stato europei. Oggi le parole del cardinale Parolin potrebbero lasciare intendere che la reticenza papale sia sostenuta da una logica diplomatica volta a impegnarsi nel risolvere la crisi. C’è un passaggio dell’intervista che lo sottintende: «La Santa sede è sempre pronta ad aiutare le parti a riprendere tale via. Rinnovo l’invito pressante che il santo padre ha fatto a fermare i combattimenti e tornare al negoziato».
Santa discrezione
Il governo guidato dal premier Draghi appare fiducioso. Per giunta, nei negoziati promossi dalla Santa sede, la discrezionalità è una cifra distintiva del pontificato di Bergoglio. Quando nel 2013 Cuba gli ha chiesto di favorire la normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti attraverso la reciproca scarcerazione di alcuni detenuti, il papa si è servito del cardinale Jaime Ortega per recapitare in segreto missive ai due leader e abbattere, così, il muro decennale tra Washington e L’Avana.
Lo ha ricordato lo stesso porporato, allora arcivescovo emerito dell’Avana, a margine di un evento. «Si stava producendo un incontro triangolare il cui asse principale e fondamentale era papa Francesco, il quale, con la sua modalità, stava mettendo in contatto al vertice due linee che sino ad allora si aprivano come parallele» ha spiegato.
L’approccio di Francesco diverge da quello di papa Giovanni Paolo II, che nella controversia sulle isole Picton, Lennox e Nueva nel canale di Beagle tra Cile e Argentina, aveva scongiurato un’escalation pericolosa strappando ai due paesi la firma della Dichiarazione di pace e amicizia del 1984. Era ancora in piedi la cortina di ferro: col sopraggiungere di nuovi demoni storici quarant’anni dopo, la nuova diplomazia vaticana riuscirà a esorcizzarli?
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