- L’amministrazione Biden spiega che le minacce con cui l’America si confronta scaturiscono da «una distribuzione del potere globale che cambia» e mettono sotto pressione «le alleanze, le istituzioni, gli accordi e le norme sottostanti all’ordine internazionale».
- Di fronte alle minacce strategiche del Ventunesimo secolo occorre interrogarsi su quali siano le opzioni strategiche a disposizione dell’amministrazione Biden per sconfiggere la minaccia revisionista cinese e russa.
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La loro formulazione sembra dipendere principalmente da due variabili. La prima è il raggio d’azione in cui l’egemone sceglie di mantenere la sua funzione di guida. La seconda è il grado di impegno che l’egemone è disposto a sobbarcarsi. Il testo è parte del nuovo numero di Scenari, scopri quali sono gli altri contributi e abbonati per leggerli tutti.
«Ho promesso di impegnarmi ancora una volta con il mondo, non per affrontare le sfide di ieri, ma quelle di oggi e di domani. Siamo a un punto di svolta». L’Interim national security strategic guidance (Inssg) firmata da Joe Biden nel 2021 non poteva essere più chiara sulla portata storica dei nodi politici che la sua amministrazione è chiamata a sciogliere.
Il documento descrive il contesto politico-strategico contemporaneo come profondamente segnato dal mutamento degli equilibri internazionali, innescato sia da fenomeni transnazionali non ricollegabili a un disegno politico – come pandemie, cambiamento climatico, crescente importanza della dimensione cyber e perturbazioni economiche – che dalla precisa volontà dei competitor strategici degli Stati Uniti, Repubblica popolare cinese e Federazione russa in testa, di estendere «la loro influenza globale».
I dilemmi strategici di fondo con cui si confronta il nuovo corso alla Casa Bianca non sono comunque dissimili da quelli che hanno gravato sulle altre amministrazioni del post-Guerra fredda e, mutatis mutandis, da quelli su cui si sono interrogate le potenze egemoniche del passato. Cosa va difeso dell’ordine internazionale? E, come è possibile difenderlo?
Ordine liberale
L’amministrazione Biden spiega che le minacce con cui l’America si confronta scaturiscono da «una distribuzione del potere globale che cambia» e mettono sotto pressione «le alleanze, le istituzioni, gli accordi e le norme sottostanti all’ordine internazionale». L’oggetto del contendere con Pechino e Mosca, quindi, è la preservazione dell’ordine internazionale scaturito dalla fine della Guerra fredda.
Se il minimo comun denominatore di tutti gli ordini è la ricerca, per quanto possibile, di sicurezza e stabilità, questo non significa che essi siano tutti uguali. Si differenziano, infatti, sia per la distribuzione del potere tra gli stati che per le istituzioni. L’ordine internazionale contemporaneo viene spesso definito “liberale”. Ma, esattamente, in cosa differisce e in cosa assomiglia a quelli che lo hanno preceduto?
Quello liberale viene generalmente presentato come un ordine di tipo egemonico. Ovvero caratterizzato da una potenza, gli Stati Uniti, non sfidabile nella dimensione militare, animata dalla volontà di guidare gli altri stati e la cui leadership riscontra un ampio riconoscimento internazionale.
È proprio su quest’ultima condizione che agiscono le qualità liberali dell’ordine del post-Guerra fredda, costituendone il principale elemento di discontinuità con quelli del passato. Washington, infatti, ha individuato quali fattori cruciali per la sua stabilizzazione la promozione delle istituzioni multilaterali, dell’interdipendenza economica e della democrazia. Per via del ricorso a tali strumenti, l’America è stata frequentemente descritta come un egemone sui generis poiché “benevolente”.
Sebbene le qualità liberali abbiano contribuito alla stabilità di questo ordine, esse non hanno comunque intaccato la sua sostanza. È rimasta inalterata, infatti, la natura “gerarchica” che contraddistingue ogni ordine e che, in quest’ultimo, trova il suo architrave nel primato americano. Quando al cospetto di minacce strategiche, come accade anche oggi, Washington si è vista costretta a scegliere dove collocare prioritariamente le sue risorse, non ha avuto dubbi. Sempre nella Inssg, d’altronde, si legge che l’impegno dell’America è rivolto prioritariamente a difendere le «condizioni di vantaggio» di cui gode e a preservare la sua «leadership internazionale».
Le opzioni in campo
Di fronte alle minacce strategiche del Ventunesimo secolo, l’Inssg ammette che «il mondo non può essere riportato a come era settantacinque, trenta o anche quattro anni fa». Occorre interrogarsi, quindi, su quali siano le opzioni strategiche a disposizione dell’amministrazione Biden per sconfiggere la minaccia revisionista cinese e russa.
La loro formulazione sembra dipendere principalmente da due variabili. La prima è il raggio d’azione in cui l’egemone sceglie di mantenere la sua funzione di guida. Una proiezione “globale” implica la sua disponibilità ad agire da prestatore di sicurezza in ultima istanza in tutti i quadranti del sistema internazionale. Una proiezione “limitata”, al contrario, prefigura l’individuazione di uno o due quadranti strategici in cui la potenza egemonica mantiene inalterata la sua presenza, a fronte del tentativo di scaricare su alleati e partner la responsabilità delle aree non considerate vitali.
La seconda variabile è il grado di impegno che l’egemone è disposto a sobbarcarsi. Questo può essere “intenso”, presupponendone la disponibilità a ricorrere anche frequentemente alla violenza o a difendere l’ordine internazionale nella sua interezza, dai suoi assetti di potere a quelli istituzionali. Oppure può essere “limitato”, risultando caratterizzato da una bassa propensione al ricorso alla violenza, dalla moderazione tenuta nelle dinamiche competitive o dalla difesa dell’ordine nelle sue sole componenti essenziali.
Dalla combinazione di tali variabili scaturiscono quattro opzioni strategiche, la cui scelta rappresenta un dilemma per ogni inquilino della Casa Bianca. La prima, chiamata deep engagement, trae spunto dalla convinzione che per preservare il potere occorra esercitarlo. Essa richiede all’egemone di essere determinante in tutti i quadranti e di farsi garante di tutte le questioni che hanno ricadute in termini di sicurezza. Tale approccio strategico ha due varianti. L’una pone maggiore enfasi sulla dimensione “normativa”, individuando quale elemento essenziale per la stabilità dell’ordine la partecipazione attiva dell’egemone alle istituzioni internazionali – quale sia la forma da loro assunta nelle diverse epoche storiche – e il sostegno alla diffusione di determinati princìpi e modelli politici. L’altra, invece, si concentra prevalentemente sul primato militare e i modi per allargare sempre di più il divario in questo settore tra l’egemone e gli altri stati.
La seconda opzione, definita selective engagement, prende le mosse dalla convinzione che le risorse siano scarse anche per una potenza egemonica e che, pertanto, non vadano sperperate. Tale strategia la spinge a collocarsi in un punto di equilibrio tra il “fare troppo” e il “fare troppo poco” per il mantenimento dell’ordine internazionale. In tal prospettiva, essa si concretizza in un impegno intenso – all’interno del quale, come nel caso precedente, la priorità può essere attribuita alla difesa delle istituzioni o del primato – ma che deve restare circoscritto all’area, o alle aree, da cui si fanno dipendere le sorti dell’ordine internazionale.
La terza opzione, quella dell’offshore balancing, si basa sulle stesse premesse logiche della precedente, ma fornisce una soluzione opposta. Prescrive una limitazione dell’impegno nella dimensione istituzionale, a fronte del mantenimento del primato militare. L’egemone deve ridurre al minimo la presenza nei quadranti esterni al suo, tenendosi sempre pronto a intervenire quale bilanciatore d’oltremare laddove si profili l’emergere di un peer competitor. Il principale strumento a servizio di questa strategia è la preservazione del controllo sui cosiddetti spazi “comuni” – dalla dimensione marittima a quella aerea, dallo spazio extra-atmosferico a quello cyber. Anche tale strategia può svilupparsi lungo due varianti. La prima prescrive lo snellimento delle strutture e degli strumenti militari che non siano direttamente collegati al command of the commons e consiglia di riportarli tutti all’interno del quadrante strategico dell’egemone. La seconda, invece, ammette la possibilità che esso intervenga occasionalmente in altre aree per lanciare un monito ai potenziali competitori strategici.
L’ultima opzione strategica implica la sostanziale rinuncia dell’egemone al suo ruolo di guida globale. Questa assume le forme di una strategia “riduzionista” quando la superpotenza fa corrispondere la sua sicurezza esclusivamente alle dinamiche interne alla sua macroregione d’appartenenza. Mostrandosi qui disponibile sia a ricorrere alla forza che a garantire un livello istituzionale minimo, profila così la definizione di una sfera d’influenza. Nella sua variante più estrema, invece, tale opzione prende i contorni dell’isolazionismo. La superpotenza, pertanto, sceglie di evitare ogni forma di intervento per difendere o alterare lo status quo in aree diverse da quelle che incombono sui suoi confini.
L’autore ha più diffusamente trattato i temi del presente articolo nel volume Come difendere l’ordine liberale. La grand strategy americana e il mutamento internazionale (Vita e Pensiero, in uscita il 10 giugno), pubblicato nell’ambito del progetto COMDOL del Centro Studi Geopolitica.info con CEMAS Sapienza e sostenuto dall’UAP del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
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