- Con l’aumentare della popolazione nelle zone povere del mondo e l’inasprirsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più conflitti saranno causati per l’accesso all’oro blu.
- Mentre tutto il mondo è concentrato sull’analisi delle risorse energetiche come principale fattore di guerre sembra, invece, che proprio la scarsità di acqua potrebbe mutare i destini dei futuri conflitti globali.
- Occorre investire nelle politiche e infrastrutture necessarie per raggiungere la “resilienza idrica”. Il testo fa parte del numero di Scenari: "La grande migrazione", in edicola e in digitale dal 22 luglio.
Ismail Serageldin, ex vicepresidente della Banca mondiale, nel 1995 disse: «Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo secolo avranno come oggetto l’acqua». Purtroppo, la profezia sembra essersi avverata. Oggi le crisi idriche e il mancato approvvigionamento di acqua sono alla base di un significativo numero di conflitti. Come si legge nel rapporto dell’Unesco The United Nations world water development report 2019: leaving no one behind: «In un contesto segnato da un aumento della domanda si è verificato un aumento significativo dei conflitti legati all’acqua». Tra il 2000 e il 2009, ne sono stati censiti 94. Tra il 2010 e il 2018, si è arrivati a 263, rimarca il rapporto.
Se non si inverte questa tendenza, con l’aumentare della popolazione nelle zone povere del mondo (la popolazione africana, stimata oggi in circa un miliardo e 200 milioni di persone, è destinata a raddoppiare entro il 2050) e l’inasprirsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più conflitti saranno causati per l’accesso all’oro blu. Mentre tutto il mondo è concentrato sull’analisi delle risorse energetiche come principale fattore di guerre sembra, invece, che proprio la scarsità di acqua potrebbe mutare i destini dei futuri conflitti globali.
Sempre nel già citato rapporto Unesco si legge che 2,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 4,5 miliardi non hanno servizi igienici sicuri. I rifugiati sono la categoria più debole e maggiormente esposta alle crisi idriche. Dal 2015 al 2019, 25,3 milioni di persone all’anno, in media, sono migrate a causa dei disastri naturali. La crisi idrica, dunque, ha scatenato negli ultimi decenni conflitti economici e politici, e in parte militari, per il controllo delle risorse. La loro crescita è determinata anche dalla mancanza di adeguate leggi internazionali e di un’autorità, anch’essa internazionale, in grado di farle rispettare.
Quando gli stati – che dipendono per il loro approvvigionamento dalle acque di fiumi che nascono o scorrono in altri paesi – decidono di edificare una diga o costruire opere di canalizzazione, di fatto incidono sull’approvvigionamento idrico dei paesi confinanti, con il rischio di generare conflitti, che diventano più aspri dove il clima è più arido e le risorse più limitate, come in medio oriente o in Asia, oppure dove è più difficile costruire acquedotti, come in Africa.
La guerra delle dighe
La crisi idrica in alcune aree del medio oriente e del nord Africa, che si va a sommare al rischio di penuria di beni alimentari di prima necessità, anche a causa della guerra in Ucraina, si fa sempre più allarmante, soprattutto in alcuni stati.
Nel 2020 i ricercatori del Water, peace and security partnership hanno presentato una mappa dettagliata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in cui si segnalavano le aree più a rischio conflitti per l’accesso alle risorse idriche, nel periodo compreso tra il giugno 2020 e il maggio 2021. Il medio oriente e il nord Africa erano, e restano, quelle in cui le crisi rischiano di essere maggiori. Si tratta di aree in cui, oltre all’instabilità politica e di sicurezza, c’è una seria penuria di acqua. Basti pensare all’Iraq meridionale, che sta affrontando da alcuni anni continue siccità legate alla costruzione di grandi dighe in Turchia che limitano il regime d’acqua del Tigri e dell’Eufrate.
Il Southeastern Anatolia project previsto dal governo di Ankara comprende, infatti, la costruzione di un sistema di ventidue dighe lungo i due fiumi con l’obiettivo di migliorare l’economia locale in una delle zone più povere del paese. Lo scorso anno, il ministro per le risorse idriche iracheno ha denunciato la forte carenza di acqua nel nord del paese, mettendo in guardia dai pericoli che questa situazione potrebbe comportare per la sua stabilità. Secondo i dati forniti dal ministero, il flusso d’acqua proveniente dalla Turchia si è ridotto del 50 per cento rispetto al 2019, anche a causa delle scarse precipitazioni annuali.
Un altro caso riguarda la Siria. Alcuni studiosi addebitano la guerra civile in Siria anche ai molti anni di siccità. Tra il 2006 e il 2010, infatti, la Siria ha vissuto la peggiore siccità mai registrata nella sua storia recente. La penuria d’acqua ha causato la migrazione di quasi 2 milioni di agricoltori verso i centri di Aleppo e Damasco, preparando, forse, il terreno per i disordini politici e sociali degli anni a venire.
Durante il conflitto siriano, infatti, l’acqua è diventata una vera e propria arma. Nel 2013 lo Stato islamico si è impossessato della diga di terra di Tabqa, la più grande al mondo, fondamentale fonte di acqua ed elettricità per 5 milioni di persone. In seguito, la cattiva gestione dell’infrastruttura ha causato ricorrenti blackout elettrici e l’inondazione dei terreni agricoli nel sud. L’anno seguente, nel 2014, la Siria ha denunciato la Turchia per aver bloccato il flusso del fiume Eufrate, facendo scendere il livello dell’acqua nel lago artificiale Assad di circa sei metri e lasciando milioni di siriani senza acqua potabile.
Il piano della Turchia di usare l’acqua come arma di ricatto e di guerra contro i suoi vicini potrebbe dare i suoi frutti anche in termini di realpolitik. In questo contesto, infatti, non sono da escludere, nel futuro della politica di Ankara, maggiori concessioni idriche all’Iraq in cambio di forniture di petrolio economicamente vantaggiose.
Gerd, la diga della discordia
In questo periodo i riflettori sono accesi sulla crisi in corso tra Egitto, Sudan ed Etiopia per le acque del Nilo, definito fin dai tempi di Erodoto “il dono” per l’importanza che rivestiva (e riveste) per la vita del popolo egiziano.
Dal 2011 l’Etiopia ha avviato un progetto di produzione di energia idroelettrica, realizzando una grande diga sul fiume Nilo per favorire lo sviluppo economico e soddisfare i bisogni della popolazione anche in termini di fabbisogno energetico. Una volta terminata, la diga, denominata Grand ethiopian renaissance dam (Gerd), renderà l’Etiopia uno dei principali produttori di energia dell’Africa orientale.
Nonostante vari e vani tentativi di accordo tra Etiopia, Egitto e Sudan (altro stato interessato alle risorse idriche del Nilo), Addis Abeba ha iniziato, nel luglio 2020, senza accordi con le controparti, il riempimento della diga africana. Il Nilo Azzurro, sul quale sta procedendo la costruzione, è uno dei maggiori affluenti del fiume Nilo, da cui Il Cairo ricava più del 90 per cento del proprio fabbisogno idrico.
Secondo l’Egitto la diga mette in pericolo la vita di più di 150 milioni di persone, egiziane e sudanesi. Il presidente egiziano al-Sisi vuole assicurarsi che la costruzione di Gerd non causi danni all’approvvigionamento egiziano e che il suo riempimento avvenga in maniera graduale. L’Etiopia, invece, sostiene che il progetto idroelettrico è essenziale per sostenere la sua economia in rapida crescita e ritiene che favorirà lo sviluppo di tutta la regione. Addis Abeba, in particolare, dichiara che oltre il 60 per cento del paese è costituito da terra asciutta, mentre l’Egitto, al contrario, è dotato di acque sotterranee e ha accesso all’acqua di mare che potrebbe desalinizzare.
Anche se per il momento, soprattutto per ragioni geografiche (Egitto ed Etiopia non sono stati confinanti) ed economiche, una guerra tra i due stati è un’ipotesi piuttosto remota, se la limitazione del flusso del Nilo dovesse causare una penuria di acqua in Egitto e la via del dialogo non dovesse funzionare, è ragionevole pensare che l’aeronautica del Cairo potrebbe colpire la diga nella zona a monte del fiume, cercando, così, di “arginare” il problema.
Le spese militari dell’Egitto, lo scorso anno, sono state di circa 9,7 miliardi di euro, mentre l’Etiopia ha investito solo 300 milioni di euro per la difesa. Tuttavia, Addis Abeba sta guardando ad altri paesi. L’Etiopia e la Francia hanno concluso il loro primo accordo di cooperazione militare il 12 marzo 2019. Il 16 luglio del 2020, il ministro degli Esteri turco si è recato in visita nella capitale etiope.
La Turchia, dopo la Cina, è il secondo più grande investitore straniero in Etiopia, con oltre 150 aziende nel paese e ha, dunque, tutto il vantaggio a che la diga venga costruita. Una serie di interessi contrastanti che potrebbero vedere “gli appetiti” di potenze esterne e che potrebbero portare a una escalation di violenze con la presenza di attori esterni.
Acqua contesa tra Pakistan e India
Alle water wars in atto se ne potrebbe aggiungere un’altra che coinvolgerebbe India e Pakistan. Come riporta Foreign Policy in un articolo del 2019 a firma di Keith Johnson, la decisione indiana di costruire una diga sul fiume Ravi, al confine tra i due stati, può essere considerata un grave atto di ostilità: le acque sono indiane ma una porzione viene lasciata scorrere in Pakistan. È prevedibile che questo non farà che aumentare il disaccordo tra i due stati, soprattutto perché il Pakistan prevede una rapida penuria d’acqua: nel 2025, la scarsità di acqua sarà altissima e avrà un impatto profondo su tutte le attività umane, in primo luogo l’agricoltura.
Lo scenario più preoccupante potrebbe essere quello di una guerra per l’acqua combattuta da due potenze nucleari. Ma la guerra dell’acqua, almeno tra questi due paesi, non sarebbe una novità. Come spiega Sunil Amrith, professore di Studi asiatici all’Università di Harvard, tutto comincia con il Trattato per l’acqua dell’Indo. Secondo il trattato, ratificato nel 1960, gli affluenti dell’Indo, fiume principale del Pakistan, sono stati suddivisi tra i due paesi: le acque del Sutlej, del Beas e del Ravi spettano all’India, quelle dell’Indo occidentale, del Jhelum e del Chenab al Pakistan. Questo significa che per i primi tre l’India può accampare tutti i diritti di sfruttamento che desidera: le acque vengono fatte convogliare nelle campagne vicine per favorire l’agricoltura. Quello che scorre, finisce al Pakistan.
Adesso, per aumentare la resa del fiume, l’India ha deciso di edificare una diga. Secondo lo studioso, la motivazione va cercata nel fatto che è cambiato l’approccio alle risorse idriche in cui i conflitti sono più intranazionali, cioè tra le regioni che si disputano lo sfruttamento dell’acqua, che internazionali. Nell’area (India, Nepal, Bhutan, Pakistan) ci sono più di 400 dighe in costruzione o pianificazione. Altre ancora saranno costruite al confi ne tra India e Cina. E questa furia costruttiva potrà innescare nuovi conflitti e nuovi disastri ecologici.
La globalizzazione e l’emergenza idrica
La globalizzazione ha alterato radicalmente la nostra percezione della sicurezza e ha introdotto problemi e pericoli di portata internazionale e collettiva. Dopo il crollo del Muro di Berlino, le minacce globali si caratterizzano per una complessità che non era mai stata raggiunta in precedenza, con implicazioni di natura tecnologica, politica, ideologica, demografica e ambientale.
In particolare, la minaccia demografico sociale è determinata dalle esplosive differenze tra la crescita della popolazione e la ricchezza di risorse disponibili nelle varie regioni, con conseguenti movimenti migratori di massa che causano profondi cambiamenti sociali nei paesi di destinazione. La minaccia ambientale è rappresentata dal crescente degrado delle condizioni naturali del pianeta e dall’esaurimento delle risorse vitali, come l’acqua. Tali risorse, se carenti, rischiano di essere causa di guerre. E già in alcune regioni africane, così come in quelle mediorientali, il controllo e la gestione della risorsa sono causa di tensioni e conflitti.
Dato che i cambiamenti climatici e l’afflusso di nuovi residenti mettono a dura prova le infrastrutture idriche esistenti, spesso inefficienti, molte città rischiano di arrivare presto al “giorno zero”, quando i rubinetti resteranno a secco. La Banca mondiale fa notare che le politiche e le infrastrutture necessarie per costruire la “resilienza idrica” sono costose, ma una siccità è molto più costosa, riducendo potenzialmente la crescita economica di una città fino al 12 per cento. Anche per questo conviene investire nell’acqua.
Una gamma complementare di politiche può trasformare in opportunità le crisi indotte dall’acqua. I responsabili politici, specialmente nelle regioni colpite da conflitti come, ad esempio, l’area Mena (Middle East-North Africa), dovranno trovare un compromesso tra misure a breve termine, per rispondere alle esigenze idriche immediate, e misure a lungo termine, necessarie per affrontare i problemi idrici strutturali, sia nelle città che nelle aree rurali. Viceversa, saremo sempre più esposti a conflitti per l’oro blu.
Il testo è un estratto dalla rivista Vita e pensiero (numero 3, 2022).
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