A grandi passi, si fa strada la prospettiva di un conflitto esteso tra Israele e Hezbollah. La sorprendente, in tutti i sensi, “operazione senza cavi ”, che mette fuori gioco i quadri intermedi del Partito di Dio, nonché l’ambasciatore iraniano a Beirut, può essere stato ordinato per evitare che l’ingegnosa trappola del Mossad venisse scoperta. O per far capire a Nasrallah, e soprattutto ai suoi alleati iraniani, che la guerra d’attrito per conto terzi in corso in Alta Galilea ha le ore contate.

In ogni caso, il quadro non cambia. Tanto più in queste ore, in cui scoppiano non solo i cercapersone ma anche i walkie-talkie della stessa partita manomessa. Quel beep risuonato in tutto il Libano - e in Siria, a conferma che il devastato paese governato dal redivivo Assad è non solo retroterra ma parte integrante dell’arco sciita teso tra Teheran e Beirut passando per Damasco, e del conflitto alimentato dalla sue frecce -, che ha provocato l’innesco dei miniordigni, piazzati infiltrando la catena logistica di Hezbollah, è qualcosa di più di un avviso.

È l’ennesimo segnale, dopo l’assassino del capo militare del Partito di Dio Fuad Shukr a Beirut, e del leader politico di Hamas, Ismail Hanyeh, a Teheran, che Israele è pronto a allargare il conflitto. Nel contesto di una strategia che ha un obiettivo minimo, allontanare Hezbollah dal confine nord e consentire il rientro della popolazione sfollata- circa sessantamila persone - in un’area decisiva anche per l’economia, ormai divenuto esplicito “obiettivo di guerra”; e uno massimo: distruggere Hezbollah, mandando contemporaneamente un inequivocabile e duro segnale militare all’Iran - tanto meglio se ciò consentisse la caduta del regime - e ridisegnare, così, l’intero assetto geopolitico mediorientale.

La posta in gioco è questa, lo si neghi o meno ufficialmente. E del resto, i concomitanti segnali, come lo spostamento da Gaza al fronte nord della 98° divisione, che nei ranghi ha paracadutisti e commandos, e l’intensificazione dei bombardamenti oltre confine, lo confermano.

Urgenza di agire o schiaffo esemplare e umiliante, la decapitazione dei quadri intermedi di Hezbollah - se avevano quei dispositivi, distribuiti capillarmente dalla loro organizzazione che aveva “sconsigliato” l’uso del cellulare, non era certo perché i desueti reperti tecnologici fossero uno status-symbol, ma perché i militanti che li avevano in consegna svolgevano importanti funzioni, militari e logistiche nel Partito di Dio- consente di indebolire la spina dorsale della milizia dal vessillo giallo.

Un attacco combinato, aereo, navale e, soprattutto di terra, che porti i Merkava ben oltre il fiume Litani, cacciando la milizia islamista sciita lontano dal confine e, se fosse necessario, riaffacciarsi, come già i carri agli ordini di Ariel Sharon nel 1982 sulle colline di Beirut, sino a penetrare nella roccaforte sciita di Daiyeh, nella parte meridionale della capitale, non può che essere facilitato dalle intimidenti esplosioni a catena.

Un simile attacco costringe l’organizzazione a ripensare l’intera catena di comando, con le inevitabili conseguenze del caso. Anche perché chi l’ha messa in piedi, e assistita in questi anni, i Pasdaran iraniani, si sono mostrati vulnerabili nella sicurezza: a Teheran come a Beirut.

Il momento è, dunque, più che mai propizio per Netanyahu e i suoi stretti alleati, i messianici di estrema destra Ben Gvir e Smotrich che, come l’inossidabile premier, vedono nella guerra a oltranza, la sola possibilità di perpetuare il proprio potere e l’influenza dei loro partiti. In nome della dottrina strategica “nessun nemico ai confini”, che presuppone la distruzione di organizzazioni ostili anche mediante occupazioni territoriali o l’istituzione di fasce di sicurezza in profondità.

E del sempre meno inconfessabile progetto della Grande Israele in versione nazionalista o nazionalreligiosa, per ora coincidente, fondato sulla politica del fatto compiuto, che mira a ridefinire, ampliandoli, i confini riconosciuti del 1967. Di questa logica è parte anche il ventilato allontanamento dall’esecutivo del più realista e filoamericano Gallant e il via libera, capace di far esplodere la Cisgiordania e non solo, alla preghiera ebraica nella Spianata delle Moschee, reclamato da Ben Gvir e prodromico alla rimessa in discussione del sempre fragile e sensibile assetto di quel conteso luogo santo.

Che faranno ora Hezbollah e l’Iran, colpiti e umiliati ancora una volta da Israele. Anche in questi paesi, vi sono due schieramenti nel gruppo dirigente. Il primo ritiene non sia possibile andare a uno scontro aperto e convenga, per mantenere il potere, limitarsi a qualche colpo a effetto, che consenta di salvare la faccia, e ripristini, almeno parzialmente, la capacità di deterrenza.

Un modo di aderire alla politica della guerra in forma, oggetto di grande parte della diplomazia internazionale in nome dell’obiettivo di non allargare il conflitto, limitandosi a massimizzare il capitale simbolico, contenere le perdite e dannosi riverberi politici interni. Il secondo pensa che ormai lo scontro sia inevitabile e che l’opzione della lunga guerra d’attrito, condotta dai proxies dell’Iran, non sia più perseguibile perché la reazione israeliana ne mina, oltre che il potenziale militare, la capacità di tenuta politica. Insomma, i margini di contenimento del conflitto si assottigliano progressivamente, logorati da colpi su colpi che costringono a abbozzare o reagire, facendo perdere, in ogni caso, credibilità o forza.

Si vedrà a ore quale sarà la reazione di Nasrallah. Di fronte a uno scenario che sfugge di mano, risalta l’impotenza americana. Biden ha premuto su Netanyahu come mai nessun altro inquilino della Casa Bianca, ma che dire di un alleato, finanziato e armato, che continua a disattendere i “consigli” della potenza protettrice in materia di negoziato e cessate il fuoco, tenuta all’oscuro, come sostengono senza troppe remore fonti ufficiali Usa, di operazioni “sensibili” come l’eliminazione mirata a Teheran del leader di Hamas o quella dei device wireless in Libano?

Oltretutto mentre Blinken e l’inviato speciale Hochstein, sono impegnati a raffreddare le tensioni nell’area. Come è possibile cercare di tenere in piedi il complicato negoziato a Gaza e vederlo sabotare dal proprio alleato? Evitando il necessario chiarimento con Netanyahu, gli Usa si sono messi in una situazione inedita per una potenza globale: Biden è ormai un’ “anatra zoppa”, Harris, pur non potendo trascurare il voto musulmano e dei giovani pro-pal negli swing states, ha confermato la continuità di quella politica, per convinzione e timore di scoprirsi sul lato dell’elettorato ebraico, mentre Bibi agisce e attende: sperando che a novembre nella Sala Ovale sieda Trump. Situazione di impotenza che potrebbe spingere Netanyahu, senza Gallant al governo, a compiere il passo che tutto può far deflagrare.

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