- Questa settimana apriamo con le surreali (distopiche, se preferite) elezioni per il “chief executive”, il capo del governo locale di Hong Kong, alle quali domenica 8 maggio parteciperà un solo candidato, John Lee Ka-chiu. Torneremo poi sulla gestione del coronavirus in Cina, perché ci sono tante novità interessanti da analizzare.
- Dopo un rapido passaggio, grazie a Yuan, sugli indicatori economici, negativi come mai negli ultimi due anni, vedremo gli effetti della pandemia e della guerra sul RMB, la valuta cinese, contrariamente a tante aspettative sempre meno internazionale.
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Un comitato elettorale di 1.461 membri metterà domenica 8 maggio John Lee Ka-chiu a capo del governo della Regione amministrativa speciale di Hong Kong (Hksar), mentre nelle strade dell’ex colonia britannica – per prevenire attacchi di “lupi solitari”, informa la polizia – saranno dispiegati 7mila agenti. Per essere eletto a Lee servono almeno 751 voti, e ne avrebbe già in tasca 786. Del resto Lee è il candidato unico, gradito a Pechino, e verrà votato da un organismo dominato da rappresentanti dello stesso establishment che può contare anche su 89 seggi su 90 nel consiglio legislativo, il parlamentino locale.
Il movimento di massa e le rivolte del 2019-2020 hanno innescato la controriforma di Pechino (nuova legge elettorale e legge per la sicurezza nazionale) che ha cancellato quel minimo di dialettica democratica che si esercitava nelle istituzioni della Hksar, anche a causa dalla scelta del boicottaggio a oltranza da parte del campo pro-democrazia.
I media hongkonghesi indipendenti sottolineano l’impalpabilità del sessantaquattrenne Lee, un ex poliziotto che il 3 maggio scorso ha rivelato la sua fede cattolica. Il nuovo chief executive erediterà da Carrie Lam una Hong Kong polarizzata dopo i moti del 2019 e la loro repressione, le cui difficoltà economiche sono state acuite da un’incerta gestione dell’epidemia di Covid.
Ai giovani protagonisti del movimento del 2019-2020 finiti in carcere e sotto processo Lee ha lanciato un messaggio distensivo: «Dovremmo dare loro la possibilità di reintegrarsi nella società dopo aver scontato la pena». Ma nessuna apertura è arrivata alle richieste di maggiore democrazia e rappresentanza che da tempo agitano una parte della società. Lee ha chiarito che non ci sarà spazio per riforme politiche durante il suo mandato quinquennale (del resto una contro-riforma è stata appena applicata da Pechino).
Lee non è intenzionato a intervenire nemmeno nel mercato immobiliare, con la tassa sugli immobili vuoti che potrebbe ridurre il problema, sentitissimo dai giovani, dei costi esorbitanti degli appartamenti. John Lee punta a far funzionare meglio la pubblica amministrazione, introducendo meccanismi di premi e penalizzazioni legati al rendimento dei funzionari. Per una Hong Kong (e questo è un altro motivo di malessere delle nuove generazioni) destinata a perdere in parte il suo vantaggio competitivo rispetto alle altre città cinesi, venendo integrata nel cluster di undici metropoli dell’Area della Grande baia, la promessa di Lee è piuttosto vaga: trasformarla in un hub culturale e tecnologico.
Blindata ma contestata, la strategia “contagi-zero” divide l’opinione pubblica
A difendere la strategia “contagi-zero” – rivelatasi un flop a Shanghai – è intervenuto Zhang Weiwei, secondo cui la gestione dell’epidemia da parte della Cina «supera di gran lunga quella americana». «Il mito americano è infranto tra la maggioranza dei cinesi, soprattutto tra i giovani», ha sostenuto il professore di relazioni internazionali sul sito della Fudan, tra le più prestigiose università del paese. Zhang ha sottolineato il paragone tra i circa 5mila morti ufficiali cinesi contro gli oltre 900mila statunitensi, concludendo che «i cinesi, compreso il popolo di Shanghai, non consentiranno mai agli spiritualmente americani di decidere le nostre misure contro la pandemia né di permettere al modello di una nazione sconfitta di sostituire la nostra governance vittoriosa del Covid-19». L’uscita di Zhang chiarisce qual è la strategia del partito, che verrà perseguita anche nei prossimi mesi: dimostrare la superiorità del “nostro” modello, vincente, contrapposto al loro, perdente.
- Perché è importante
Dopo le disfunzioni, il caos gli episodi di brutalità verificatisi a Shanghai e raccontati in questa intervista di Selvaggia Lucarelli, il popolo – che ha subìto maggiormente gli effetti delle chiusure draconiane, ha protestato come ha potuto, tra l’altro facendo girare online l’inquietante video “Le voci di aprile”. Ma sono sempre di più anche gli scienziati che contestano l’efficacia delle misure applicate. Il professor Zhang Zuofeng (dell’Università della California, Los Angeles) ha pubblicato sul social media Meipian un articolo nel quale sostiene che i test molecolari di massa portati avanti in tutta la Cina aumentano il rischio di infezione (tra la gente in fila) mentre si sarebbe dovuto favorire l’impiego di quelli antigenici rapidi, così come l’utilizzo per gli anziani del vaccino mRNA di Pfizer, che non è stato ancora approvato dalle autorità di controllo cinesi.
- Il contesto
L’articolo di Zhang è circolato abbastanza liberamente nell’internet cinese, mentre “Le voci di aprile” è stato censurato, ma non immediatamente. Segnali che Pechino – che ha il controllo assoluto della rete – potrebbe scaricare tutta la responsabilità sulle autorità locali. La punizione dei responsabili di un “caso Shanghai” non inficerebbe la narrazione ufficiale costruita dal partito sulla «vittoria della guerra popolare contro il coronavirus». Per questo, mentre si avvicina il XX congresso del Pcc del prossimo autunno, nel paese potrebbero essere condotti test di massa in tutte le città di primo, secondo e terzo livello (505 milioni di abitanti in tutto), nonostante i costi stimati: 257 miliardi di dollari, pari all’1,5 per cento del Pil del 2021. In attesa di un piano di stimolo (inutile senza il ripristino della mobilità) nessuno più crede al Pil previsto per il 2022 «intorno al 5,5 per cento». Nulla di strano: per la leadership di Xi e compagni una vittoria politico-ideologica sull’occidente vale molto di più di qualche punto di Pil.
YUAN, di Lorenzo Riccardi
Manifattura e servizi in crisi, ad aprile crollano gli indici Pmi
Pechino ha reso pubblici i primi dati economici di aprile 2022, periodo clou del lockdown di Shanghai che ha fortemente impattato l’economia regionale e il commercio con il resto del mondo.
Le statistiche confermano che l’attività manifatturiera ha visto una sostanziale contrazione ad aprile a causa di una ripresa delle infezioni da Covid-19 nel territorio della Repubblica popolare cinese e alle incertezze causate dalle tensioni geopolitiche.
Alcuni analisti locali hanno chiesto un maggiore sostegno politico per aiutare le imprese più colpite a riprendere la produzione, migliorare la gestione della logistica e garantire la stabilità delle catene di approvvigionamento.
Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), il Purchasing Manager Index (Pmi) per il settore manifatturiero per il mese di aprile 2022 è stato pari a 47,4, in calo rispetto al valore 49,5 di marzo 2022: è la performance peggiore negli ultimi due anni. Un livello dell’indice Pmi superiore a 50 indica un’espansione, mentre un dato inferiore a 50 conferma una fase di contrazione.
Molte aziende hanno segnalato difficoltà nei trasporti di merci, materiali e componenti. L’indicatore inerente alla produzione si è attestato a 44,4 ad aprile, in calo di 5,1 punti percentuali rispetto al dato di marzo e l’indice relativo ai nuovi ordini è stato pari a 42,6 rispetto ai 48,8 del mese precedente.
Il Pmi non manifatturiero cinese ha raggiunto quota 41,9 ad aprile 2022, in calo rispetto al dato di 48,4 di marzo. Pandemia e lockdown hanno colpito maggiormente il settore dei servizi e confermato l’impatto al settore industriale più significativo dall’inizio della crisi sanitaria a febbraio 2020. Il governo, insieme alle azioni di contenimento delle infezioni dovrà implementare un piano di rilancio delle aree più colpite. Azioni specifiche sono attese per la municipalità di Shanghai, che con il più grande porto al mondo per volume di container e un Pil cresciuto nel 2021 oltre l’8 per cento, fino a 680 miliardi di dollari, costituisce il cuore economico del paese.
Yuan riserva globale? Covid e guerra dimostrano il contrario
La guerra in Ucraina ha dimostrato che lo yuan (o RMB), la moneta cinese, è ben lontano dal diventare una valuta di riserva globale. Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina infatti gli investitori hanno iniziato a liberarsi in massa di bond e quote azionarie di società cinesi. Una fuga di capitali dai mercati della Repubblica popolare che è proseguita durante tutto il mese di marzo e aprile. A rivelarlo è lo Institute of International Finance (Iif) in un rapporto pubblicato il 3 maggio scorso e intitolato “Capital Outflows from China”.
- Perché è importante
Secondo lo Iif la fuga di capitali registrata nel marzo scorso sarebbe più legata alle difficoltà del settore immobiliare conseguenti alla ristrutturazione del colosso del settore Evergrande, mentre quella del mese successivo sarebbe una conseguenza del conflitto in Ucraina. Gli investitori temono che le compagnie cinesi (Pechino che è legata a Mosca da una “partnership strategica onnicomprensiva”) possano essere sanzionate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. «Pensiamo che una combinazione di blocchi Covid, deprezzamento e rischio percepito di investire in paesi le cui relazioni con l’occidente sono complicate spieghino i deflussi di capitali dalla Cina. Come corollario, lo yuan sembra ancora lontano dall’essere una risorsa di riserva globale di primo piano», sostiene l’Iif.
- Il contesto
Nonostante la Cina sia la seconda economia del pianeta, il suo yuan è tuttora scarsamente utilizzato al di fuori dei confini nazionali, dove (secondo i dati del Fondo monetario internazionale relativi all’ultimo trimestre del 2021) rappresenta solo il 2,79 per cento delle riserve valutarie globali. La strategia “contagi zero” applicata da Pechino ha provocato interruzioni della catena di approvvigionamento e incrinato la fiducia dei consumatori, aumentando la pressione sul rallentamento dell’economia. Secondo l’ultimo sondaggio della Camera di commercio dell’Unione europea in Cina, il 23 per cento delle compagnie europee sta pensando di ritirare gli investimenti già fatti o quelli programmati nella Rpc. A questo link è possibile scaricare l’ultimo rapporto della Camera di commercio italiana in Cina, “Impact of Covid-19 on Italian Companies in China”.
Consigli di lettura della settimana:
- Is China Bringing Back the Planned Economy?
- Unravelling the controversies of Chinese foreign aid
- Developing Online Media Control
- Shanghai residents turn to NFTs to record COVID-19 lockdown, combat censorship
- The Ukraine War, China, and Taiwan
Per questa settimana è tutto. Per osservazioni, critiche e suggerimenti potete scrivermi a: exdir@cscc.it
Weilai vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani, e vi dà appuntamento a giovedì prossimo.
A presto!
Michelangelo Cocco @classcharacters
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