Molto probabilmente Biden non si è persuaso di essere inadeguato, ma ha dovuto prendere atto che c’era una candidata più performante che poteva automaticamente ereditare i 96 milioni di dollari che la campagna elettorale ha a disposizione ed essere da subito pronta a dare battaglia a Trump. Le possibilità che qualcuno la sfidi ora si assottigliano. I sondaggi dicono che può ancora cambiare la dinamica
Forse non si saprà mai quando precisamente sia successo né come sia avvenuto, se per pressione insostenibile dall’esterno o per (tardiva) illuminazione interiore, ma a un certo punto Joe Biden si è convinto che la vicepresidente Kamala Harris aveva più possibilità di lui di battere Donald Trump.
Molto probabilmente non si è persuaso di essere un candidato inadeguato – poche ore prima di farsi da parte aveva ribadito che era in forma splendida e la campagna continuava – ma che ce n’era uno più performante che poteva automaticamente ereditare i 96 milioni di dollari che la campagna elettorale ha a disposizione ed essere da subito pronta a dare battaglia verso il 5 novembre.
Biden ha mollato quando il calcolo delle probabilità elettorali è diventato di un’evidenza impossibile da negare. E a quel punto conveniva decisamente passare alla storia come il saggio presidente che ha avuto l’umiltà e il buonsenso di uscire di scena – benché con qualche settimana di ritardo – invece che lanciarsi verso una disfatta che sarebbe stata un trionfo dell’egolatria coronato dal fallimento alle urne.
Ma anche assumersi la responsabilità di gettare il partito democratico in una dilaniante lotta per la successione in meno di un mese, esponendolo a una lacerante convention aperta in cui chi vuole si fa avanti e i delegati votano, sarebbe stata un’opzione inaccettabile. Meglio di questa sarebbe stato portare avanti la campagna e, semmai, perdere con coerenza a novembre.
Insomma, è plausibile che le ultime settimane di Biden siano state dedicate più allo studio dei numeri di Harris che all’interrogazione intima della propria anima per sentire cosa suggeriva di fare.
Ora le ipotesi sono formalmente tutte aperte, ma una strada è disegnata. Le regole del partito per la nomina di un candidato sono soggette a interpretazioni e certamente labili in circostanze inedite come queste, ma alcune certezze ci sono.
La prima: Biden ha indicato Harris, perciò lei eredita fondi e viene messa a parte della lista di circa 4600 delegati che fra meno di un mese a Chicago dovrà votare il candidato. Questi delegati avevano un obbligo soltanto nei confronti di Biden, quindi potranno dare il loro voto tecnicamente a chiunque, ma è difficile immaginare che non tengano conto dell’indicazione del presidente, che è duplice: non sta dicendo solo che vuole Harris, ma anche che non vuole riaprire la contesa per stabilire la candidature.
La seconda certezza, dunque, è che Harris ha dalla sua parte un’asimmetria informativa. Se altri candidati volessero farsi avanti a questo punto potrebbero, ma non dalla struttura del partito non otterrebbero nemmeno la lista dei nomi dei delegati: non saprebbero chi chiamare per convincerli a votare alla convention del partito.
La terza certezza, se ne deduce, è che se qualcuno vuole mettersi di traverso a Harris ha molta voglia di rompersi (politicamente) l’osso del collo oppure desidera scientemente far saltare in aria il partito. È un fatto improbabile, ma di questi tempi è irragionevole escludere anche gli scenari che appaiono più assurdi.
Rimane da capire quali sono i numeri di Harris. I sondaggi nazionali dicono che è all’incirca un paio di punti in svantaggio rispetto a Donald Trump, dato leggermente migliorativo rispetto a quelli di Biden. Se si stringe l’inquadratura sugli swing states, Harris sembra permettere ai democratici di fare qualche passo in avanti: sembra avvicinarsi in Michigan e Pennsylvania, e consolidare un vantaggio percepito in Virginia.
Significa, forse, che c’è ancora margine per cambiare la dinamica elettorale, cosa che appariva ormai impossibile con Biden. Harris ha avuto grandi di difficoltà di affermazione politica nei primi due anni alla vicepresidenza, quando si è talvolta mostrata inadeguata o fuori sincrono nel messaggio, e poi è stata sostanzialmente accantonata, salvo poi essere recuperata quando le cose per Biden hanno preso a scricchiolare.
Però ha una carriera rispettata, una storia di arciamericano multiculturalismo e una verve da procuratrice che può tornare molto utile per contrastare un pregiudicato pieno di pendenze in tribunale. Non significa che può vincere, soltanto che ha più probabilità di farlo di Biden, il che val bene una forzatura nel meccanismo che indurrà irritualmente i delegati a fidarsi dell’indicazione del loro candidato, dirottando i voti sulla sua vice. Poi si vedrà.
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