In Croazia, a pochi passi dalla Bosnia, i migranti sognano una nuova vita, attraversando foreste piene di mine. La polizia ha manganelli, guanti rinforzati e torce da usare come armi, mentre l’Unione europea fa finta di nulla
- Nelle ultime settimane la Croazia non ha tremato solo per le accuse rivolte dagli attivisti e dagli stessi migranti alle forze di polizia, ma anche per i forti terremoti che hanno devastato la zona di Petrinja, causando decine di vittime e migliaia di sfollati interni.
- In questa zona che d’inverno si trasforma in un immenso acquitrino di centinaia di chilometri quadrati, le mine antiuomo sguazzano che è un piacere, in attesa di tagliare le gambe o di uccidere il cacciatore vestito con la vecchia mimetica, il contadino con la pelle rugosa e arsa dal gelo, il bimbo che rincorre il sogno di acchiappare la fagianella ai confini della farma
- Nonostante tutto quel blu e tutte quelle stelle che costeggiano le strade della Croazia, più che in Europa, che dovrebbe essere la culla dei diritti, da queste parti sembrerebbe di essere in Libia: la chiusura delle frontiere a sud dell’Europa è garantita, allo stesso modo. Calpestando i più elementari diritti umani.
Anche l’Europa ha i suoi Garage Olimpo. Uno si troverebbe a Korenica, in Croazia. Una piccola località quasi in Bosnia, a soli 15 chilometri da Bihać, dove migliaia di migranti stazionano sotto una neve e un gelo che non conoscono frontiere. In attesa di passare l’ennesimo confine nella speranza di una nuova vita europea, lontana da guerre, fame, sete, persecuzioni. Un piccolo paese di 1550 abitanti, che potrebbe essere una qualsiasi amena località montana, circondata da foreste di pini e betulle imbiancati, con hotel e chalet ben curati ma adesso abitati solo da agenti della policija croata.
In questo garage, nei pressi del posto di polizia locale, sarebbero stati pestati e torturati decine e decine di persone che avevano la sola colpa di essere entrate illegalmente in Croazia, l’ultima tappa balcanica della rotta che porta verso l’Austria e infine la Germania, oppure l’Italia.
Diritti calpestati
Nelle ultime settimane la Croazia non ha tremato solo per le accuse rivolte dagli attivisti e dagli stessi migranti alle forze di polizia, ma anche per i forti terremoti che hanno devastato la zona di Petrinja, causando decine di vittime e migliaia di sfollati interni. «Abbiamo cacciato i nazisti, e poi i russi, e poi i serbi, ma davanti ai terremoti ci si può solo arrendere», ci dice Bojana, una volontaria arrivata da Zagabria . Sui pochi muri rimasti in piedi si vedono ancora le pallottole della guerra che ha posto fine alla storia della Jugoslavia e che ancora riempie di odio verso i serbi, e i bosniaci, gli occhi di chi ha più di quarant’anni.
Centinaia sono i volontari arrivati da tutta la Croazia per sostenere le popolazioni terremotate, ma centinaia sono anche i volontari attivisti che, in questo oaese che cerca in ogni modo di sostituire le corone con gli euro e di entrare a far parte degli accordi di Shengen, non smettono di lottare per quel rispetto dei diritti umani che sarebbe d’obbligo in ogni paese d’Europa ma che qui sono quotidianamente calpestati. Respingimenti illegali, torture e violenza di ogni tipo sono all’ordine del giorno. Talmente diffuse che persino fonti vicine al governo ammettono che sono quasi 200 le inchieste interne alla policija per gli innumerevoli abusi compiuti dalle guardie di confine. Peccato che di queste inchieste interne non si trovi quasi traccia né in documenti ufficiali né nelle inchieste giornalistiche.
Fermati dalla polizia
I confini tra la Croazia e la Bosnia sono delle immense foreste, che in inverno si trasformano in paludi gelate. Gelate e piene di mine antiuomo lasciate dalla guerra finita nell’ultimo lustro dello scorso millennio. Secondo le stime sarebbero ancora quasi centomila, disseminate in questi boschi, a cui si devono aggiungere le decine di migliaia di ordigni inesplosi. Secondo le stime, dalla fine della guerra hanno causato oltre 2mila morti. In teoria, i campi minati dovrebbero essere segnalati, ma non è così.
«Qui intorno è pieno di mine e i campi minati non sono segnati: muoversi qui è pericolosissimo», ci dice il poliziotto che ci ferma nella foresta che si estende nella zona di Veliki Obljaj, uno dei tanti punti che i migranti provano ad attraversare. Con le piogge le mine si spostano, scivolano nel fango, alcune persino galleggiano e navigano per decine, centinaia di metri rendendo spesso vano il lavoro degli sminatori.
In questa zona che d’inverno si trasforma in un immenso acquitrino di centinaia di chilometri quadrati, le mine antiuomo sguazzano che è un piacere, in attesa di tagliare le gambe o di uccidere il cacciatore vestito con la vecchia mimetica, il contadino con la pelle rugosa e arsa dal gelo, il bimbo che rincorre il sogno di acchiappare la fagianella ai confini della farma, la fattoria, o di sua nonna che va a raccogliere la legna affondata in un vecchio piumino che la copre fino ai piedi. Oppure di un migrante, di cui nessuno saprà mai nulla e che non entra nelle statistiche ufficiali.
«Le mine sono, insieme ai disturbi mentali, la peggiore eredità della guerra», continua il poliziotto che ci controlla i documenti, stupito di trovare italiani in mezzo ad una foresta dimenticata da Dio e frequentata solo da chi scappa e da chi insegue. «State attenti, se girate da queste parti. E per favore, non fate foto e non parlate con queste persone».
Queste persone sono una famiglia di kurdi iraniani che la policija ha pescato, letteralmente visti i 20 centimetri d’acqua che ricoprono il terreno forestale.
Il poliziotto lo chiede gentilmente, mentre nel furgone trascrive i nomi dai nostri documenti. Ma nelle sue parole di inglese stentato si legge la paura dei superiori. Che dopo pochi attimi sbucano da un sentiero e che non hanno per nulla la stessa faccia per bene. La pistola alla coscia e alla cintura i manganelli, le torce di metallo e i guanti rinforzati sulle nocche da placche di kevlar, dure come il cemento. Lo sguardo e il tono intimidatorio con cui ci ordinano di andare immediatamente via non sono per nulla rassicuranti, ma simili in tutto e per tutto alle decine di poliziotti croati che le fotografie degli ultimi anni ci hanno mostrato, mentre pestano chi viene trovato in queste foreste e che quasi sempre finisce con molti lividi e le ossa rotte in un campo al di là del confine, in Bosnia.
La famiglia di kurdi
Forse faranno la stessa fine anche i cinque kurdi iraniani. Non possono parlare, ma con i loro sguardi e le loro dita ci chiedono aiuto. Ci chiedono il nostro numero di telefono che non riusciamo a dargli sotto gli occhi della policija croata che nel frattempo, con l’arrivo di un’auto e di un altro furgone, è aumentata di numero. Nessuno di loro porta alla cinta i passamontagna con i quali i poliziotti croati si coprono il volto, prima di massacrare di botte i migranti, ma i guanti rinforzati, i manganelli e le torce di metallo non possono raccontare altro che violenza. Le foto che gli attivisti ci avevano mostrato a Zagabria parlavano chiaro: tagli e lacerazioni sanguinanti, braccia e nasi e denti rotti. Come chiaro parlano le denunce dei richiedenti asilo: uso di pistole teaser, abusi sessuali e persino unghie strappate. Anche l’Unhcr ha denunciato l’utilizzo di violenza inaudita da parte della policija croata.
I kurdi hanno viaggiato per mesi, passando dall’Iran alla Turchia. Hanno attraversato la Bulgaria, la Serbia e sono arrivati in Croazia. Migliaia di chilometri, quasi tutti a piedi, sempre nascosti, sempre imboscati, sempre braccati dalle guardie di confine.
Il loro viaggio, cominciato dalla provincia di Teheran, è per ora finito a Veliki Obljaj. Il viaggio è costato migliaia di dollari e infinite vessazioni. Più delle poche parole che riusciamo a scambiare, la fatica si capisce dagli occhi verdi che spuntano dalla mascherina di Leyla, o in quelli marroni e pieni di orgogliosa determinazione di suo figlio.
Il più alto in grado del gruppo di poliziotti ci manda via malamente mentre il giovane spalanca le porte del furgone nel frattempo sopraggiunto. Si intravedono, ancorate al pianale, catene di acciaio zincato destinate a legare mani e piedi dei “prigionieri”. Salutiamo, sperando almeno che la nostra presenza abbia messo al riparo questa famiglia.
Riprendiamo il sentiero nel quale le ruote della macchina sprofondano nel fango e continuiamo a pattugliare anche noi il bosco, nonostante le intimidazioni delle guardie di confine.
La complicità europea
Ci troviamo, senza nulla che lo indichi a parte il gps della macchina, in Bosnia. Ancora una volta, veniamo fermati da una pattuglia della policija croata. Non esita a operare anche in territorio bosniaco, pur di fare la guardia ai confini d’Europa, compito per il quale – denunciano gli attivisti di molte organizzazioni umanitarie –la Croazia viene ricompensata persino in base al numero dei respingimenti effettuati.
Questa volta ci scortano fino alla strada asfaltata, dove ricominciamo a vedere ovunque bandiere croate affiancate alle bandiere europee. Secondo le denunce fatte da molti parlamentari europei, è proprio l’Unione europea a dare mano libera o quanto meno a fare finta che qui nulla accada di terribile. «La Croazia – ha denunciato ad esempio a Deutsche Welle l’europarlamentare verde Erik Marquardt – sta agendo sotto pressione di altri Stati dell’Unione europea. Sono complici di questo comportamento. Sembra che la Commissione europea o singoli Stati membri dell’Unione stiano esercitando pressioni politiche per ignorare i diritti umani». Altrimenti non si spiegherebbe, ha detto ancora Marquardt, come mai «i negoziati di adesione all'area Schengen siano stati avviati solo dopo che la Croazia ha iniziato a respingere sistematicamente i rifugiati al confine, anche con la violenza».
Nonostante tutto quel blu e tutte quelle stelle che costeggiano le strade della Croazia, più che in Europa, che dovrebbe essere la culla dei diritti, da queste parti sembrerebbe di essere in Libia: la chiusura delle frontiere a sud dell’Europa è garantita, allo stesso modo. Calpestando i più elementari diritti umani e le stesse costituzioni, leggi e convenzioni che l’Europa ha promulgato e sottoscritto.
© Riproduzione riservata