La guerra in Medio Oriente è iniziata con una strage di innocenti, i civili israeliani delle città frontaliere. È continuata con una strage di innocenti a Gaza e in aprile una bambina beduina ha fatto le spese del primo attacco diretto dell’Iran contro lo Stato ebraico. Ora una nuova strage di innocenti, i 12 bambini drusi uccisi a Majdal Shams sulle alture del Golan, può determinare una nuova escalation. Questa volta sul fronte del Libano.

Nel Golan, che secondo il diritto internazionale è territorio siriano occupato da Israele, vivono poco più di 20.000 drusi, oltre alla popolazione israeliana concentrata in un numero di insediamenti separati. Questo sottogruppo di lingua araba rimase nel Paese nel 1967 dopo la conquista delle alture da parte di Israele, e tutt’oggi abita alcuni villaggi.

Frontiera di fuoco

Majdal Shams è il principale e il più vicino alla frontiera. Molti altri residenti durante la guerra fecero i bagagli e si spostarono dalla parte siriana del confine. Per anni, prima della messaggistica online, nella cosiddetta “valle delle grida” le famiglie divise dalla recinzione si ritrovavano per conversare con i megafoni.
I drusi del Golan si sono comportati in maniera diversa dei drusi della Galilea rispetto al loro rapporto con Israele. I drusi della Galilea hanno acquisito la cittadinanza e sviluppato un senso di appartenenza allo Stato, al punto da servire nelle forze di sicurezza da cui gli arabo-israeliani sono tradizionalmente esentati. In tanti in questi mesi sono morti combattendo a Gaza.
I drusi del Golan invece sono rimasti reticenti. Il loro numero relativamente basso ha fatto sì che le autorità israeliane insistessero affinché ottengano la cittadinanza, a differenze di altre zone di frizione dove gli equilibri demografici sono più delicati (per esempio Gerusalemme est).

Ma i drusi locali hanno preferito rimanere titolari di un semplice “certificato di passaggio”, una specie di residenza permanente (solo il 20 per cento circa ha accettato il passaporto israeliano).

Negli anni precedenti la guerra civile in Siria mantenevano relazioni con Damasco, dove spesso andavano a studiare (d’altronde, è a un passo), e ottenevano permessi di transito eccezionali tra i due Paesi in guerra.
Sabato 27 luglio i bambini e adolescenti che giocavano a calcio in un campetto di questo affascinante villaggio frontaliero sono diventati il danno collaterale di una prolungata escalation fra Israele e Hezbollah, la milizia sciita libanese. Sul fronte domestico israeliano l’attacco si configura come il più sanguinoso dal 7 ottobre.

Hezbollah ha negato di aver lanciato il razzo Falaq di fabbricazione iraniana che ha provocato la strage, ma in questo contesto le autorità israeliane hanno avuto gioco facile a respingere la sua presa di distanza.

Dura rappresaglia

Due domande sorgono spontanee. La prima è come mai la popolazione di Majdal Shams non è stata evacuata, come la stragrande maggioranza della popolazione di confine israeliana, trovandosi in uno dei punti più pericolosi del conflitto? Forse la popolazione locale non si considerava un bersaglio, ma è noto come gli attacchi di Hezbollah non sempre brillino per precisione.

La seconda è come mai il sistema di difesa anti-missilistica Iron-dome non abbia funzionato. Può darsi la distanza percorsa dal missile sia stata troppo corta perché potesse intervenire un’intercettazione. Oppure, semplicemente, la mancata intercettazione rientra in un errore statistico naturale, visto il numero altissimo di razzi, droni e altri armamenti lanciati da Hezbollah dall’inizio della guerra.
Risulta ridicolo continuare a parlare di un rischio di guerra fra Israele ed Hezbollah laddove gli attacchi durano ormai da quasi dieci mesi. Il rischio di una nuova escalation si configura a questo punto come una possibile offensiva di terra di Israele nel sud del Libano, che sarebbe la prima dal 2006.

Un attacco di questa entità in una regione che Israele considera a tutti gli effetti parte dello Stato - Israele ha annesso il Golan nel 1981 e ha ottenuto il riconoscimento americano sotto Trump nel 2019 - provocherà necessariamente una dura rappresaglia, già minacciata dalle autorità israeliane. Ma non è detto sia l’incidente che precipiti un conflitto totale.
In fondo per ora il nocciolo della contesa rimane Gaza. Hezbollah è entrata nel conflitto l’8 ottobre scorso per sostenere gli sforzi di Hamas, anch’esso parte della ragnatela di alleati anti-israeliani tessuta dall’Iran.

Ma da allora i quadri dell’organizzazione hanno fatto sapere che il conflitto sul fronte meridionale del Libano rimane in funzione di quello nella striscia. Ciò a dire che il giorno di una tregua tra i militanti palestinesi e lo Stato ebraico sancirebbe anche la fine dell’escalation a nord di Israele.
Si può dire dunque che c’è un individuo responsabile dello stato disastroso della guerra: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Lui che, mentre si consumava la strage di innocenti a Majdal Shams, si trovava ancora negli Stati Uniti a perorare la causa di una non meglio identificata “vittoria totale”. Nel discorso al Congresso ha negato la tragedia delle morti civili a Gaza e negli incontri con le famiglie degli ostaggi ha mantenuto gli atteggiamenti ambivalenti e spesso mendaci che hanno caratterizzato tanta parte della sua carriera politica.
 

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