- Nella relazione sulle licenze per l’export di armamenti risulterebbe un pagamento effettuato da Riad all’azienda italiana Simmel difesa per un’autorizzazione rilasciata nel 2021 ma di cui non si trova traccia nel report consegnato al parlamento.
- Inoltre, secondo l’Agenzia delle dogane, nel 2021 la Simmel difesa non avrebbe effettuato alcuna consegna di materiale di armamento nonostante le licenze ottenute negli anni precedenti.
- Intanto dal porto di Genova continuano a transitare le navi della compagnia saudita Bahri, cariche di carri armati prodotti dagli Stati Uniti e di container con munizioni ed esplosivi.
La relazione sull’export bellico italiano consegnata alcuni giorni fa al parlamento conferma un dato ormai noto: l’Italia vende materiale militare a paesi che non rispettano i diritti umani o coinvolti in conflitti. Qatar, Emirati, Turchia ed Egitto sono solo alcuni dei nomi che si ritrovano nell’elenco dei primi venti paesi con cui facciamo affari, nonostante l’esistenza di una legge che pone limiti stringenti alla vendita di armamenti. Almeno in teoria.
In questo elenco figura anche l’Arabia saudita, paese alla guida della coalizione attiva in Yemen dal 2015 e in cui un mese fa sono state eseguite ben 81 condanne a morte in un solo giorno. Un record per una monarchia più volte accusata dalle organizzazioni internazionali di violazione dei diritti umani.
Nonostante ciò, secondo quanto riportato nella relazione riferita al 2021, all’Arabia sono state concesse licenze per l’acquisto di aeromobili, munizioni, bombe, siluri, missili e razzi, insieme ad apparecchiature elettroniche e per la direzione del tiro per un totale di 47 milioni di euro. Ma qualcosa nella relazione sembra non tornare.
La Simmel difesa
In uno dei due volumi che compongono la relazione risulta che nel 2021 l’Arabia saudita abbia effettuato un pagamento pari a 21 milioni alla Simmel difesa, azienda italiana con sede a Colleferro (Roma) che produce munizioni di vario tipo e calibro, testate per missili antiaerei terra-aria Aster, spolette e polveri da lancio. La transazione fa riferimento ad un’autorizzazione rilasciata dall’Autorità competente nel 2021, ma di questa licenza sembra non esserci traccia nella relazione presentata dal governo alle Camere.
Una mancanza confermata anche da Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale di armamenti e armi leggere per l’Opal e la Rete per il disarmo, che nota come nessuna delle 35 autorizzazioni concesse alla Simmel possa essere collegata al pagamento effettuato dall’Arabia.
A sorprendere è anche un altro dato. «Secondo quanto riportato dall’Agenzia delle dogane», spiega Beretta, «nel 2021 la Simmel non avrebbe effettuato alcuna consegna all’estero, pur avendo ricevuto autorizzazioni all’esportazione per un valore di 95.050.406 euro nel 2021, di 24.867.085 nel 2020 e 35.624.511,40 nel 2019 e 27.656.443 nel 2018».
L’invio del materiale di cui si è ottenuta la licenza all’export viene solitamente effettuata in un arco di tempo che supera l’anno di riferimento dell’autorizzazione, ma stando alla relazione del 2021 sembra che la Simmel non abbia effettuato alcuna consegna.
Come nota Beretta, o per un anno l’azienda italiana non ha effettivamente esportato alcun tipo di materiale, oppure il dato non è stato correttamente riportato nella relazione per una mancanza della stessa Simmel o dell’Agenzia delle dogane.
Le vendite a Riad
Eppure i prodotti dell’azienda di Colleferro non rientrano tra quelli finiti nel mirino del governo Conte II, che a gennaio del 2021 stabilì la revoca delle autorizzazioni per l’esportazione di bombe d’areo e missili concesse alla Rwm tra il 2016 e il 2018.
La decisione fu presa sulla base di una risoluzione del parlamento che impegnava l’esecutivo a sospendere le esportazioni di prodotti che potevano essere utilizzati per colpire la popolazione civile dello Yemen fino a quando non vi fossero stati sviluppi concreti nel processo di pace.
Ad oggi però sono stati fatti ben pochi passi avanti verso la risoluzione del conflitto, da qui la protesta di alcuni parlamentari contro la concessione di autorizzazioni verso l’Arabia saudita per «bombe, siluri, razzi, missili ed accessori».
Secondo quanto riportato dal Fatto Quotidiano, che cita una fonte accreditata, le licenze farebbero riferimento a pezzi di ricambio e siluri navali, quindi a prodotti la cui vendita è consentita dalla risoluzione delle Camere, ma sono già state annunciate interrogazioni parlamentari in merito all’export verso l’Arabia.
La relazione infatti non basta per sapere con certezza a che materiali di armamento facciano riferimento le singole autorizzazioni, con effetti negativi anche sulle capacità di controllo che spettano per legge al parlamento.
Il porto di Genova
Ma a legare l’Italia e l’Arabia saudita è anche il porto di Genova. Più o meno ogni venti giorni dallo scalo ligure passa una delle sei navi della compagnia saudita Bahri, già carica di armamenti prodotti negli Usa o diretta verso le coste del nord America per ritirare i prodotti militari acquistati dalla monarchia.
L’ultimo attracco risale a pochi giorni fa, quando a Genova ha fatto scalo la Bahri Jeddah con a bordo carri armati M1 Abrams e container con munizioni ed esplosivi. A rivelare il contenuto della nave sono stati ancora una volta i portuali del Collettivo autonomo (Calp) che si oppongono al transito di armamenti per il porto ligure sulla base della 185/90.
La legge infatti vieta tanto la vendita quanto il transito di materiale bellico verso paesi che non rispettano i diritti umani o coinvolti in un conflitto, ma non sempre viene rispettata.
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