I rapporti sugli abusi ai prigionieri palestinesi non vengono raccontati, e i massacri sono messi in ombra per tutelare la narrazione. La libertà di espressione era un fiore all’occhiello della cultura democratica del paese. Ma il contesto bellico la mette a dura prova
Lunedì 5 agosto l’organizzazione israeliana di sinistra B’Tselem ha pubblicato un rapporto di 118 pagine sui maltrattamenti di prigionieri palestinesi detenuti nello Stato ebraico a partire dal 7 ottobre. Il documento, intitolato “Benvenuti all’inferno”, si basa su 55 interviste con civili di Gaza, Cisgiordania e zone arabe di Israele rilasciati da 12 diverse infrastrutture carcerarie.
A parte qualche rara eccezione, nessun giornale israeliano ha riportato le conclusioni della Ong, o sfruttato le informazioni offerte da queste testimonianze inedite su realtà difficili da penetrare. Non perché gli organi di stampa siano soggetti a forme di controllo da parte del governo – la censura militare, attiva già da prima della guerra, si occupa solo di rivedere articoli di interesse strategico nel settore della difesa e non è particolarmente rigida. Ma perché l’industria mediatica israeliana, tanto più nel contesto bellico, non vede di buon occhio presentare questo tipo di informazioni.
«C’è un problema di auto-censura che riguarda la quasi totalità del panorama mediatico israeliano», dice Gideon Levy, famoso giornalista del quotidiano Haaretz, collegato su Zoom da Tel Aviv. «Quando è un governo a limitare la libertà d’espressione, c’è resistenza, ci sono forme di protesta. La situazione qui è peggiore: sono i media stessi che hanno deciso di limitarsi. Nessuno glielo ha chiesto, nessuno li ha costretti. Se non il bisogno di compiacere il pubblico, interpretandone i bisogni a costo di tradire la propria missione».
È facile rendersi conto del problema viaggiando in Israele in tempo di guerra. I racconti del 7 ottobre vengono continuamente ripresi e citati. Ma anche a fronte della levata di scudi della comunità internazionale per il numero altissimo di vittime civili e per la distruzione nella striscia, nella bolla dell’informazione israeliana questi dati non vengono presi in considerazione.
È più facile imbattersi in un aggiornamento sul numero di cani dell’esercito israeliano rimasti uccisi a Gaza. Il disinteresse per le perdite dalla parte palestinese colpisce in maniera particolare in occasione dei raid più letali delle forze di Tsahal.
Seppur specificando che «al momento, almeno per i giornalisti israeliani ebrei, non c’è un problema di libertà di espressione intesa come interferenza dall’esterno», Levy teme che anche la censura vera e propria non sia troppo di là da venire. «Se questo governo rimane al potere, ben presto ci sarà. Per esempio c’è un progetto di legge che proibirebbe la critica dei soldati israeliani. Che cosa vorrebbe dire?»
Stampa straniera
Nel frattempo, sono i giornalisti delle minoranze a dover stare attenti a quello che dicono. Per esempio, dopo l’operazione di salvataggio di Noa Argamani, l’8 giugno scorso, la presentatrice arabo-israeliana Lama Tatour è stata licenziata da Channel 12, uno dei tre principali canali televisivi, per aver scritto su Instagram che l’ostaggio, in buone condizioni, aveva «le sopracciglia più curate delle mie». Non è l’unica vicenda di questo tipo.
C’è anche un capitolo che riguarda la stampa straniera. Lo scorso maggio l’emittente televisiva qatarina al Jazeera è stata costretta a interrompere dopo molti anni le proprie operazioni in Israele, dove tradizionalmente godeva di accrediti stampa nonostante lo Stato ebraico non abbia relazioni diplomatiche ufficiali con Doha. Netanyahu ha bollato l’emittente «canale del terrore» e il ministro della Comunicazione Shlomo Karhi l’ha definita «braccio della propaganda di Hamas».
Poche settimane più tardi lo stesso Karhi è finito al centro di una polemica per aver ordinato il sequestro immotivato di materiali dell’agenzia Associated Press, poi restituito. L’ingresso nella striscia rimane off-limits per i media. A Gaza sono peraltro tantissimi i giornalisti locali uccisi, e un grave incidente di questo tipo si è consumato nella prima fase della guerra anche in Libano. In questo contesto si può ancora considerare Israele un campione di libertà di espressione?
Nell’annoso dibattito se Israele possa o non possa essere considerato una democrazia, viste le sue istituzioni democratiche che convivono con l’occupazione oltre la linea verde, la libertà di espressione è sempre stato un argomento forte per sostenere che debba essere considerato tale.
I confronti
Basti pensare a film come l’avvincente Valzer con Bashir di Ari Folman, che indaga la responsabilità israeliana nei massacri dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut nel 1982. Furono compiuti dalle milizie cristiane attive nella guerra civile nel paese dei cedri, ma la ricostruzione di Folman fa addirittura illuminare il cielo ai soldati di Ariel Sharon dispiegati nella capitale per facilitare le operazioni dei miliziani. Nessuno si è sognato di censurarlo.
Oppure si pensi al lavoro di una giornalista come Amira Hass, che per quasi mezzo secolo ha documentato le malefatte israeliane nei territori con una regolarità quasi ossessiva. Incorrendo sì nell’ostracismo di tanta parte della cittadinanza israeliana, ma mai in un intervento da parte degli apparati statali finalizzato ad intimidirla o metterla a tacere.
Si diceva, a ragione, che gli altri attori regionali avrebbero solo da imparare. Fra loro il turco Erdogan, che pur di non confrontarsi con voci critiche ha ridotto quello che era un panorama mediatico vivace e dinamico in un deserto dei tartari. Figuriamoci Assad: che cosa accadrebbe in Siria a un regista che, ispirato da Folman, volesse documentare le responsabilità storiche di Hafez al Assad nel massacro di Hama del 1982, lo stesso anno di Sabra e Shatila? E via discorrendo. Oggi, però, anche sotto questo aspetto, la realtà del paese con la guerra si sta trasformando. Fino a che punto non lo sappiamo ancora.
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