Mike Pompeo arriva in Vaticano, ma non viene accolto da papa Francesco. Una forma di cautela, per salvaguardare relazioni diplomatiche molto complicate
- L’arrivo di Mike Pompeo in Vaticano aggiunge un elemento alla tempesta perfetta, dopo che il capo della diplomazia americana ha scritto un articolo molto duro contro l’accordo fra la Santa sede e la Cina.
- Le relazioni diplomatiche con la Cina sono complesse. Parte del Politburo cinese è ancora fortemente critico rispetto a un accordo con il cattolicesimo di matrice occidentale. L’influenza sociale dei vescovi cinesi è molto forte e questo spiega le divergenze fra la Chiesa “ufficiale” e quella “clandestina”.
- Ammettendo alla chiesa di Roma tutti i vescovi, anche quelli precedentemente scomunicati, il papa ha invitato i più restii a superare le chiusure.
FOTO
(AP Photo/Manish Swarup)
In uno stato vaticano in piena turbolenza interna, l’arrivo del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aggiunge un elemento alla tempesta perfetta. Papa Francesco ha deciso di aggirarla defilandosi dall’incontro con il capo della diplomazia americana e lasciando tutto nelle mani del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, e dell’arcivescovo Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli stati.
In cima all’agenda di Pompeo c’è la partecipazione a una conferenza sulla libertà religiosa organizzata dall’ambasciata americana presso la Santa sede. In condizioni normali sarebbe un evento diplomatico qualunque, ma la visita arriva dopo che Pompeo ha affidato alla rivista americana First Things, voce conservatrice, uno scritto incendiario nel quale attacca frontalmente l’accordo fra la Santa sede e la Cina. Il perno dell’argomentazione critica è proprio la libertà religiosa, valore supremo che, a suo dire, la chiesa tradisce venendo a patti con il regime di Pechino.
Come una minoranza
Nello scritto, Pompeo ha equiparato il destino dei cattolici cinesi a quello delle minoranze religiose, come gli uiguri e i tibetani, dicendo che l’accordo non ha «difeso i cattolici» dal regime. Ma il linguaggio duro del segretario di Stato non cambia la linea di Bergoglio sull’accordo.
Negli ultimi due anni, il Vaticano ha affrontato questioni spinose in Cina, a volte interagendo direttamente con i diplomatici di Pechino: divieti di partecipazione alle celebrazioni, persecuzioni e limitazioni di alcuni gruppi cattolici. Ma per Bergoglio, che ha fatto del soft power la sua strategia fin dai tempi dell’America Latina, i blocchi non sono sempre ostacoli insormontabili.
Vescovi ufficializzati
Nel 2016 aveva invitato gli stati a non «avere paura» dell’ascesa cinese.
È senz’altro significativo che Pechino abbia riconosciuto il Papa quale autorità suprema della chiesa cattolica: da due anni, infatti, ogni nomina vescovile deve essere autorizzata dal pontefice.
Sette vescovi appartenenti alla “comunità clandestina” sono stati ufficializzati e due sono stati consacrati ex novo: Stefano Xu Hongwei, vescovo coadiutore di Hanzhong, e Antonio Yao Shun, vescovo di Jiningn Wulanchabu, Mongolia interna.
L’obiettivo del prossimo accordo sarà consolidare la procedura e snellirla, arrivando a colmare le nomine che mancano. La Santa sede stima che servirebbero circa quaranta vescovi in più per rispondere ai bisogni dei cattolici in Cina.
Le sfaccettature del regime
Le relazioni diplomatiche con la Cina sono però complesse. Il Partito comunista calibra ogni proposta che viene da Roma e parte del Politburo è ancora ostile a un accordo, memore di un confronto con un cattolicesimo di matrice occidentale.
Questo spiega i provvedimenti emanati da alcune autorità provinciali, come le croci divelte da alcune chiese o prelati esiliati nelle loro curie.
«Questa non è, però, la situazione di tutta la Cina. Altrove, come a Canton, si erigono chiese e alle celebrazioni è consentita la partecipazione dei bambini», dice padre Franco Mella, missionario del Pime che da decenni vive a Hong Kong.
Una nuova era
Questa diversità corrisponde alle sfaccettature di un Politburo i cui membri sono più o meno aderenti al marxismo di matrice maoista.
Eppure, quella inaugurata da Xi Jinping è la Cina della nuova era, dove coltivare la guanxi, le relazioni, è la chiave di volta di un paese che vede nell’armonia un bene irrinunciabile.
Oggi Pechino conosce tutti i membri del clero cattolico che non vogliono prestare giuramento alla chiesa cinese, ma il trattamento da parte delle autorità non è così violento come nei decenni passati.
È un segnale importante, perché giova anche alla Cina evitare divisioni interne. In questo solco, la Santa sede farà leva sulla nomina dei vescovi, gli unici garanti dell’unione nella fede tra il papa e i credenti.
Vescovi cinesi
L’influenza sociale dei vescovi cinesi è molto forte e questo spiega le divergenze fra la comunità della Chiesa “ufficiale” – autorizzata dalla Repubblica popolare – e quella “clandestina”, che rifiuta l’imprimatur di Pechino.
Francesco ha lavorato per superare lo scontro tra comunismo e cattolicesimo, ideologico piuttosto che pastorale. Ma, a distanza di due anni, ha dovuto accettare che alcuni sacerdoti e vescovi si rifiutino di parlare con Pechino.
La linea intransigente
A capo della linea intransigente c’è il cardinale Joseph Zen, 88enne vescovo emerito di Hong Kong.
Nei giorni scorsi, le autorità di Hong Kong hanno concesso al prelato quattro giorni di permesso per poter parlare con il pontefice a Roma, ma il papa non lo ha ricevuto: «Ho consegnato la lettera che avevo scritto per il papa al segretario personale, Gonzalo Aemilius. […]Ho aspettato quattro giorni, ma non sono stato chiamato», ha dichiarato prima di ripartire.
Nell’ex colonia britannica si gioca la partita più difficile. La Santa sede dovrà nominare il successore dell’amministratore apostolico, il cardinale uscente John Tong. Zen non accetta che i candidati siano segreti e nutre il sospetto che il Vaticano sceglierà «uno che abbia la benedizione di Pechino».
Per ora, la nomina è congelata: a Roma sanno che agitare acque già turbolente nell’ex colonia britannica potrebbe far saltare il lavoro diplomatico fatto finora.
«Nuove forme di evangelizzazione»
Più volte la Santa sede ha chiarito che i termini “indipendente” e “libertà” in bocca alle autorità cinesi non hanno la valenza che avevano nella Cina del 1958. Davanti a quello che il mondo definisce un regime, papa Francesco oppone una dottrina cristiana di apertura.
Ammettendo alla chiesa di Roma tutti i vescovi, anche quelli precedentemente scomunicati, il papa ha invitato i più restii a superare le chiusure e rifiutare quell’atteggiamento che «invece di facilitare l’accesso alla grazia» consuma «le energie nel controllare».
Per Bergoglio, nutrito della teologia del popolo e di Aparecida, la nomina dei vescovi si pone nel solco di un’evangelizzazione capillare, vero pilastro della Chiesa callejera, “di strada”.
Una comunità smarrita
In Cina il tasso di urbanizzazione è cresciuto enormemente e la chiesa necessita di un aggiornamento pastorale, che colmi la distanza con una comunità smarrita nella crescita delle megacity.
In questi due anni, la Santa sede si è messa in ascolto dei cattolici cinesi, delle sofferenze tanto nella “comunità clandestina” quanto in quella “ufficiale”.
In fondo, la linea di Bergoglio per la chiesa cattolica cinese è stata dettata ben prima che fosse eletto pontefice, nella V Conferenza del Celam ad Aparecida: la ricerca di «nuove forme di evangelizzazione sulla base delle varie culture e delle diverse circostanze». Oggi la partita resta ancora aperta e gli esiti sono altrettanto incerti.
Mai come ora, papa Francesco dovrà ricorrere alla sua esperienza diplomatica per essere prudente con i suoi interlocutori e pungente con chi lo vede come ago di una bilancia esclusivamente geopolitica.
© Riproduzione riservata