La prossima elezione per la presidenza degli Stati Uniti dovrà con tutta probabilità fare a meno dell’entusiasmo dei militanti che ha caratterizzato quelle del 2020, nonostante le difficoltà legate alla pandemia da Covid19. Cosa vuol dire, concretamente?

Non solo che ci sarà una maggiore astensione, ma che i candidati difficilmente potranno contare su un flusso di piccole donazioni che eguagli quello delle elezioni del 2020, quando le cifre minime arrivarono a pesare per il 35 per cento circa del totale, secondo le stime del Public Interest Research Group, complice anche la facilità di donare online in un periodo di chiusure forzate. Oggi, invece, sono tornati gli eventi in persona. E i miliardari sono tornati a pesare molto.

I finanziatori di Biden 

C’è stato anche un fatto che ha favorito questo stato di cose: la rapida vittoria alle primarie sia di Biden che di Trump ha fatto sì che le strutture delle campagne presidenziali si unificassero preso alle strutture partitiche, in modo da raccogliere assegni ben più corposi.

Nel primo caso, l’evento che ha segnato il ritorno dell’establishment dem è quello che si è svolto il 28 marzo a New York presso il Radio City Music Hall: una chiacchierata sul futuro dell’America tra Biden e i suoi due predecessori democratici, Bill Clinton e Barack Obama.

Per partecipare, il biglietto meno caro era da 250 dollari. Se si sceglieva di donare almeno 100mila dollari, scattava l’opportunità di una foto storica con il trio di inquilini della Casa Bianca. A salire, con 250mila dollari o più si accedeva anche a un ricevimento a margine con il terzetto.

L’obiettivo dichiarato era di raccogliere dieci milioni di dollari, ne sono stati incamerati invece 26. Questo ha contribuito al grosso vantaggio in termini monetari di cui gode il presidente in carica: 193 milioni di dollari in cassa a fine marzo, contro i 95 di Trump.

La stanchezza dei trumpiani

Per quest’ultimo invece, la stanchezza dei piccoli donatori è un segnale particolarmente preoccupante. Del resto, è lo stesso candidato che, durante la campagna per le primarie repubblicane del 2016, rimarcava il fatto che si sarebbe autofinanziato e che non sarebbe stato «a libro paga dei soliti miliardari». Promessa, in parte, mantenuta: quattro anni fa riuscì a raccogliere circa 378 milioni da queste donazioni inferiori ai 200 dollari.

Rispetto al marzo 2020, la convinzione dei militanti con pochi soldi a disposizione sembra molto calata, il 62,5 per cento in meno, per la precisione. Per fare un paragone d’immediata comprensione: a gennaio Trump ha raccolto circa 3 milioni di dollari da questa fonte. Biden ne ha guadagnati 2 in un solo giorno, il 29 febbraio, prima ancora del rilancio della sua campagna dopo il discorso sullo stato dell’Unione.

Questa difficoltà abbiamo visto che ha portato alla sua opa ostile sul Comitato Nazionale Repubblicano: è stata cacciata senza troppe cerimonie la presidente Ronna McDaniel, scelta dallo stesso Trump nel 2017, per sostituirla con una terna di lealisti che faccia man bassa delle risorse del partito, peraltro non immense: circa otto milioni di dollari, secondo i dati di marzo.

Una delle ragioni di questa stanchezza sta anche nel fatto che Trump non ha mai cessato di usare la sua mailing list per chiedere soldi in modo martellante, ammonendo i renitenti che, qualora non lo avessero fatto, sarebbero stati dei “traditori” o peggio.Molti di questi però si sono stufati di queste elargizioni estorte con questi metodi spicci e si sono disiscritti.

I grandi donatori di Trump

Ecco che allora entrano in gioco i grandi donatori, come Tim Mellon, già molto attivo negli ultimi cicli elettorali, che anche questa volta ha già staccato un assegno da 15 milioni verso il tycoon.

Sabato 6 aprile, inoltre, John Paulson, manager del fondo d’investimento che porta il suo nome, ha tenuto un evento nella sua residenza di Palm Beach, in Florida, con biglietti d’ingresso da 250 mila dollari, che ha portato 50 milioni nelle casse del tycoon, ma non bastano, grazie anche alle crescenti spese legali dell’ex presidente.

Cosa potrebbe colmare lo svantaggio con Biden? Convincere i donatori di Nikki Haley, ex ambasciatrice presso le Nazioni unite, ad unirsi alla campagna di novembre. Alcuni di loro, come Charles Koch, magnate della chimica e storico sostenitore del Tea Party, movimento antitasse dei primi anni di Obama, difficilmente saranno convincibili, data l’ostilità dimostrata nei suoi confronti dal tycoon in varie occasioni, così come Peter Thiel, ex sostenitore del trumpismo duro e puro.

Chi invece si è fatto convincere dalle sirene del tycoon è Nelson Peltz, magnate della finanza che aveva definito l’insurrezione del 6 gennaio 2021 una “disgrazia” ed esprimeva rimorso per aver votato Trump nel 2020. Silenziosamente, si è riavvicinato all’ex presidente, facendo colazione con lui a inizio marzo.

Nel gruppo di commensali c’erano anche altri miliardari, tra cui Elon Musk, che all’inizio della stagione delle primarie ha sostenuto tacitamente il governatore della Florida Ron DeSantis. A convincere questi ex oppositori sono i piani di Biden sull’innalzamento delle tasse sulle rendite e persino un’imposta non meglio specificata sui megapatrimoni. Se questi piani sono stati abbandonati nel corso del primo mandato, nel prossimo quadriennio potrebbero essere ciò che ci vuole per convincere l’elettorato progressista a tornare nel campo dem dopo le delusioni ricevute per quanto riguarda la mancata riforma sull’immigrazione e il sostegno incondizionato dato dalla Casa Bianca a Israele.

Per chi ha guardato con disgusto il trumpismo, dunque, c’è la possibilità di fare un patto di mera convenienza con l’ex presidente per non perdere l’influenza acquisita in questi anni che con il calo delle piccole donazioni si è ulteriormente ampliata.

Le leggi 

Sembra lontana nel tempo, dunque, l’approvazione della legge McCain-Feingold, avvenuta il 6 novembre 2002 con voto bipartisan del Congresso firmata dal senatore repubblicano John McCain e dall’omologo del Wisconsin Russ Feingold per limitare l’influenza delle corporation in politica.

Pochi anni dopo grazie agli sforzi del senatore del Kentucky Mitch McConnell, un pezzo della legge, quella riguardante proprio i limiti di spesa individuali nelle campagne elettorali, venne ritenuta incostituzionale dalla Corte Suprema il 21 gennaio 2010 con la sentenza Citizen United v. Fec, che di fatto ha liberalizzato la spesa individuale a sostegno dei candidati, togliendo ogni freno. In piedi restava solo il divieto per i cittadini stranieri di fare donazioni.

Da allora, si è aperta una sorta di età dell’oro dell’influenza dei miliardari, mitigata nel ciclo elettorale del 2020 dall’entusiasmo dei sostenitori dei rispettivi schieramenti. Adesso però prevale una rassegnazione che porta gli elettori a tenersi stretti i risparmi per altre spese.

Anche i dem potrebbero rivolgersi presto a un miliardario come George Soros, che già nel 2022 aveva donato 170 milioni di dollari a vari candidati democratici nel corso delle elezioni di midterm, così come al figlio di quest’ultimo, Alex, che nel 2020 aveva staccato un assegno da 721 milioni di euro. Anche se le intenzioni di Biden nei confronti dei redditi più potrebbero farne desistere molti altri, che potrebbe semplicemente scegliere, come i militanti semplici, di stare a guardare.

© Riproduzione riservata