- Tra colpi di stato a ripetizione e influenza crescente dell’autoritarismo, i governi democratici in Africa sono entrati in una fase di acuta fragilità.
- Declino economico a causa della guerra, partiti di opposizione più agguerriti ed elettori sempre più sofisticati stanno minacciando di sconfitta elettorale molte maggioranze africane che si pensavano solide.
- Di conseguenza a chi sta al potere restano solo due modi per mantenersi: rafforzare la propria legittimità o aumentare la repressione.
Tra colpi di stato a ripetizione e influenza crescente dell’autoritarismo, i governi democratici in Africa sono entrati in una fase di acuta fragilità.
Declino economico a causa della guerra, partiti di opposizione più agguerriti ed elettori sempre più sofisticati stanno minacciando di sconfitta elettorale molte maggioranze che si pensavano solide e che ora sono tentate di mantenersi altrimenti.
Gli ultimi anni fanno da esempio con una serie di vittorie inattese delle opposizioni. In Malawi nel 2021 Lazarus Chakwera ha sconfitto Peter Mutharika dopo molti tentativi e malgrado una ripetizione del voto. Un anno dopo Hakainde Hichilema e il suo Partito unito per lo sviluppo nazionale (Upnd) hanno battuto in Zambia il presidente in carica Edgar Lungu.
Ad agosto scorso l’esempio più lampante: William Ruto ha conquistato la presidenza in Kenya contro le manovre dell’uscente Uhuru Kenyatta che ha spostato il peso dell’establishment a sostegno di Raila Odinga.
Secondo molti osservatori anche in Angola in settembre scorso l’opposizione avrebbe vinto se i risultati non fossero stati pesantemente manipolati.
Trasferimento di potere
Si tratta di una tendenza in atto in tutto il continente. Malgrado le tattiche per orientare forzatamente il voto, un numero crescente di paesi africani sta vivendo una fase di trasferimento di potere. In molti paesi come il Sudafrica, il divario tra il partito di governo e l’opposizione si è notevolmente ridotto.
Il messaggio per le forze politiche è chiaro: chi fallisce nell’attuale contesto di declino economico rischia di essere sostituito. Zimbabwe, Nigeria, Liberia e Sierra Leone andranno alle urne nel 2023 e ci si chiede se ci saranno altre sorprese.
I motivi del successo
Secondo gli analisti di Africa Report, nel contesto delle democrazie elettive il successo delle opposizioni africane è determinato da tre fattori principali.
In primo luogo la miglior capacità coalizionale delle opposizioni che resistono sempre di più ai tentativi di dividerle. In Kenya William Ruto ha intuito che per vincere aveva bisogno di allargare l’area di consenso alleandosi con leader regionali e locali, allontanandosi cioè dalle consuete “dinastie” politiche del paese.
In secondo luogo gli elettori sono più istruiti e hanno maturato più esperienza nella gestione del multipartitismo. Trent’anni di elezioni più o meno democratiche hanno insegnato qualcosa; il sistema della corruzione nei servizi pubblici e nella vita quotidiana dei cittadini è sempre meno tollerato.
Il terzo fattore è stata la crisi economica che ha improvvisamente frenato la costante crescita del Pil africano dei due decenni precedenti, resistendo anche alla crisi finanziaria del 2008 e alla pandemia.
La guerra ucraina sta cambiando tutto: calo dell’occupazione, erosione dei risparmi, aumento dei prezzi e crisi alimentare, tutti elementi che stanno avvantaggiando cambi di governo quasi ovunque.
Le recenti indagini di Afrobarometro svolte in 33 paesi africani, rileva che il sostegno alle opposizione in Africa tende a essere maggiore quando i cittadini ritengono che l’economia sia mal gestita, quando sono meno soddisfatti dei servizi pubblici e l’inflazione sale. Sembrano banalità ma in Africa ciò significa che né l’identità etnica, né il patrimonialismo o il clientelismo riescono più a salvare nessuno da una possibile sconfitta elettorale.
Rispondere alla crisi
Di conseguenza a chi sta al potere restano solo due modi per mantenersi: rafforzare la propria legittimità o aumentare la repressione.
Ogni buona legittimità deriva dal rispondere adeguatamente alle aspettative della gente in momenti di crisi. Una delle richieste più frequenti è quella di stabilità e sicurezza: quando c’è crisi economica in Africa spesso si genera il caos mentre le classi dominanti pensano solo a salvare sé stesse.
Un leader che voglia conservare il favore della popolazione deve quindi badare alla sicurezza generale delle popolazioni. Disordini o violenze endemiche sono uno dei principali motivi di malcontento.
I governi che sono ritenuti in grado di difendere il territorio dalla lotta armata, dalla criminalità o dalla violenza godono di una delle forme più basilari di legittimità in quanto autorità protettrice.
È la sfida che stanno affrontando ora i paesi dell’Africa occidentale: obiettivo principale per serbare una parvenza di democrazia elettiva. In secondo luogo c’è la questione della sopravvivenza economica: chi offre nuove opportunità e protegge i servizi essenziali, può sperare di resistere anche in tempi difficili.
Ecco perché molti stati africani si stanno indebitando – spesso con la Cina – sperando di rimettere in modo la crescita. Purtroppo ci sono numerosi casi in cui le classi dirigenti reagiscono chiudendosi su sé stesse e considerando le proprie popolazione come una minaccia al loro potere.
Ne consegue l’applicazione di politiche repressive, quasi come una sorta di reazione istintiva che tuttavia viene sostenuta dall’esterno da diverse potenze autoritarie disponibili a fornire mezzi e uomini armati.
Zimbabwe, Uganda, Benin
In Zimbabwe e Uganda stiamo assistendo a un’involuzione di questo genere, con arresti preventivi di leader di opposizione, sparizioni e massicce frodi elettorali. Così anche in Mali o Burkina Faso dove si manipola la carta anti francese.
In questo modo alcune democrazie stanno assomigliando sempre di più a dei regimi autoritari o a dei poteri fondati sull’esercito. Anche la crisi politica del Benin va in tale direzione autoritaria. Tuttavia davanti a un colpo di stato militare o a un uso della forza, non a tutti viene concesso il favore popolare: le genti africane ormai sanno distinguere.
Sembra quasi che a ogni putsch – come nel caso del Burkina Faso – la gente creda di essere davanti a una ennesima resurrezione. Quando tale speranza viene delusa, il favore popolare passa rapidamente a un nuovo tentativo ingenerando un ciclo infinito di violenza e delusione.
Il Mali sta vivendo qualcosa di simile con l’aggravante che la minaccia jihadista fa planare un’ombra oscura sul futuro del paese. Da tale quadro caotico emerge un problema generale: la necessità di difendere le istituzioni.
Quando lo stato africano si frattura – è il caso della Libia a fare da cattivo esempio – diventa molto difficile rifondarlo. La violenza delle istituzioni – militari o no – non garantisce come una volta la tenuta del quadro nazionale. Ciò che serve è una legittimità popolare che non sia manipolata, pena la sua volatilità.
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