Come sta il cattolicesimo statunitense? E quello globale? Nella storia contemporanea molto spesso dalla salute del primo è dipesa quella del secondo e la sua capacità di influenzare transizioni democratiche in numerosi paesi del mondo.

Il 2021 e l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti d’America regalano ai lettori italiani la riedizione del fortunato volume di John Courtney Murray Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano, a cura e con introduzione di Stefano Ceccanti (Morcelliana, 2021). Negli stessi giorni, lo stesso editore pubblica un altro volume che andrebbe letto insieme a quello di Ceccanti. Si tratta di Joe Biden e il cattolicesimo degli Stati Uniti scritto da Massimo Faggioli, teologo presso la Villanova University di Philadelphia.

Nel caso del volume di Murray curato da Ceccanti, siamo davanti a un’opera che nella sua prima apparizione in lingua italiana (Morcelliana, 1965) ha accompagnato i lavori del concilio Vaticano II, riuscendo ad avere un’influenza sicuramente fondamentale sulla redazione della dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae. Già la prima edizione apparve in italiano e, sottolinea Ceccanti, «non casualmente» in un «anno chiave del confronto in sede conciliare», il 1965.

Il problema del confronto fra cattolicesimo e pluralismo sociale è stato fin dall’inizio al centro della riflessione di Murray. Era questo sia un problema di ordine secolare, ma anche e soprattutto, di ordine religioso: come, e con quali modalità era possibile per il cattolicesimo accettare la democrazia come espressione politica dei propri principi senza minare le fondamenta della propria dottrina?

Per dirla con Voegelin, che lo stesso Murray cita nel testo, quella offerta è una «gentile visione» dei rapporti tra cattolicesimo, comunità politica e apparato statale. Un approccio che, come sottolinea Ceccanti nella preziosa introduzione al testo, è decisivo nel suo irrompere nel dibattito che porterà alla dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae. In tal senso si può sostenere che assistiamo a una vera e propria «irruzione nella chiesa cattolica del diritto costituzionale americano».

Primi dibattiti

Nel dibattito che per anni ha imperversato sul titolo del volume di Murray con «verità» declinato al plurale «queste verità», opportuno è il richiamo di Ceccanti all’influenza della dichiarazione di Indipendenza «Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità». Nessuno lo fa mai, perché la vicenda sembra essere caduta nel dimenticatoio della storia, ma a proposito di quel documento fondamentale andrebbe ogni volta ricordato il contributo tutto italiano del toscano Filippo Mazzei che, attratto dagli ideali di autogoverno delle colonie, si trasferì in Virginia e divenne vicino di casa di Thomas Jefferson.

Fu proprio il toscano Mazzei, che con la chiesa cattolica era entrato in aperto conflitto, a suggerire nel testo della dichiarazione quella che forse è la frase più impregnata di senso profondamente religioso e che sarà così gravida di conseguenze giuridiche e politiche negli anni successivi. Fu Mazzei a suggerire a Jefferson la fortunata formula «Tutti gli uomini sono creati uguali», potente pallottola retorica che risulterà fondamentale nello spazzare via la segregazione razziale e contribuirà ad animare i sogni di emancipazione individuale e collettiva in molti paesi del mondo.

Si può sostenere che quella di Murray è, prima di tutto, una visione giuridica della libertà religiosa. Una visione inserita nella concezione di uno stato dalle sfere di competenza limitate e che rifiuta l’uso della coercizione in materia di religione. È una visione che si basa su una certa concezione del primo emendamento costituzionale, un approccio che potremmo definire ottimista e progressista. Si tratta dell’interpretazione, egemonica in quegli anni, delle due clausole del primo emendamento sulla religione, la “free exercise” e la “no establishmentclause.

Sono questi gli anni delle decisioni della corte Suprema nei casi Engel v. Vitale (1962); Abington School District v. Schempp (1963); Lemon v. Kurtzman (1971); Roe v. Wade (1973) che segnano l’ascesa dell’ermeneutica separatista. Quello statunitense è però un laboratorio costituzionale, una living constitution, un esperimento, non un dato stabile o immobile. In questo senso si può sostenere che il diritto costituzionale della religione degli anni Sessanta del Novecento, gli anni in cui Murray scrive il suo volume, non è quello degli anni Duemila e della corte guidata da John Roberts jr. Non sarà, molto probabilmente, nemmeno quello della nuova Corte che ora vede tre giudici nominati dal presidente Trump.

È proprio il trionfo culturale del progressimo degli anni Sessanta a generare la reazione culturale e politica che porterà alla nascita nel 1979 del movimento conservatore della Moral Majority mediante gli sforzi di Jerry Falwell, Paul Weyrich e una complessa costellazione di finanziatori e istituzioni a forte guida protestante. Non è un caso se proprio dopo il concilio Vaticano II, Paul Weyrich decise di unirsi alla chiesa cattolica greco-melchita per aprirsi alla trascendenza che sentiva arrivare da Oriente restando critico di quelle che percepiva come innovazioni portate dal Concilio.

Comincerà nel 1979, con l’inizio dell’ascesa della Moral Majority nella politica statunitense, anche la crescita dell’influenza del cattolicesimo conservatore negli Stati Uniti. Sono gli anni che porteranno alla conversione di padre Richard John Neuhaus che fonderà la rivista First Things nel marzo del 1990 per poi diventare sacerdote cattolico nel settembre dello stesso anno.

Rapporti tempestosi

Che il cattolicesimo avesse un rapporto difficile con la cultura politica statunitense era già evidente negli anni precedenti all’ascesa di John F. Kennedy che fa da sfondo alle riflessioni di Murray. Basta guardare proprio al contesto giuridico e all’audizione per la nomina di William Brennan a giudice della corte Suprema. Su richiesta della National Liberal League il senatore Mahoney pose a Brennan la seguente domanda: «Lei è vincolato dalla sua religione a obbedire alle indicazioni del papa su tutte le questioni in materia di fede e morale. Potrebbe trovarsi a decidere delle controversie che coinvolgono argomenti di fede e morale o di diritto e giustizia. Ma in queste ultime lei è vincolato dal suo giuramento ad applicare le leggi e i precedenti di questa nazione e non i decreti e le indicazioni del papa. Se lei venisse a trovarsi in una situazione di incertezza, sarebbe capace di essere rispettoso del suo giuramento o si sentirebbe vincolato dalla sua fede?».

La risposta di Brennan alla più tradizionale delle domande intrisa di sospetto anti-cattolico fu pronta e immediata: «Senatore, [...] ho giurato come lei, come tutti i membri di questa assemblea e come tutte le persone della mia religione che ricoprono un pubblico ufficio, sia esso di natura elettiva o amministrativa, senza alcuna riserva. [...] E la mia risposta alla sua domanda è che, in maniera categorica, in qualsiasi cosa io abbia mai fatto, in qualsiasi incarico io abbia mai ricoperto nella mia vita o che io vada a ricoprire in futuro, a guidarmi sarà il giuramento che mi vincola ad applicare le leggi e la Costituzione degli Stati Uniti d’America. I casi che sarò chiamato a giudicare in futuro saranno decisi solo in base a quel giuramento».

Come accaduto a John F. Kennedy, qualche anno dopo anche a Brennan veniva chiesta una giustificazione per il suo cattolicesimo. Un episodio simile ha visto come protagonista proprio Joe Biden. Durante l’audizione del giudice Anthony Kennedy, poi estensore della nota sentenza Obergefell v. Hodges che ha portato al riconoscimento del diritto al matrimonio dello stesso sesso, l’allora senatore Joe Biden decise di incalzare Kennedy su una conversazione avuta con il senatore Jesse Helms nel corso della quale Helms avrebbe detto a Kennedy: «Io penso che tu conosca la mia posizione sull’aborto» e Kennedy avrebbe risposto: «Lo so, e ammiro la tua posizione. Sono un cattolico praticante».

Per Biden, la conversazione sollevava dubbi circa l’indipendenza di giudizio del giudice nominato. Durante l’audizione, Kennedy rispose sottolineando la sua ammirazione per tutte le persone dotate di forti principi morali, ma tenne comunque a precisare come: «sarebbe comunque improprio per un giudice farsi guidare nelle sue decisioni in merito a vicende costituzionali dalle sue convinzioni religiose». Dicevamo però che occorre tenere ben presente il contesto in cui le opere vengono prodotte e pubblicate, come scrive Ceccanti: «ciascun documento è anche figlio del suo tempo».

Gli Stati Uniti degli anni Sessanta del Novecento sono molto diversi da quelli di oggi. Così come a essere diverso è il cattolicesimo, globale e statunitense. Le anticipazioni del rapporto dell’Institute for Advanced Studies in Culture dell’Università della Virginia dal titolo Democracy in Dark Times, pubblicato sotto la supervisione, tra gli altri, di James Davison Hunter (già teorico delle culture wars statunitensi) parlano di un vero e proprio cambio di «clima metereologico» per la cultura politica statunitense.

La prima caratteristica strutturale di queste mutazioni climatiche è da rintracciarsi nella crisi di legittimità delle istituzioni, soprattutto quelle governative. Come scrivono gli autori del rapporto, a questa crisi si accompagna una sempre più profonda polarizzazione della società: «Gli americani risiedono lo stesso spazio geografico, ma abitano culture politiche differenti». La polarizzazione dei media contribuisce inoltre a creare vere e proprie «realtà parallele».

L’ottimismo della visione di Murray deve fare oggi i conti con un diffuso odium theologicum che diventa politico e contribuisce alla polarizzazione delle nostre società, ben sottolineata nel rapporto coordinato da Hunter. La terza ondata democratica è stata profondamente influenzata dalle vicende del cattolicesimo democratico e dal suo successo. Spesso oggi, negli Stati Uniti, per parte importante del cattolicesimo a stelle e strisce a parlare è monsignor Viganò con i suoi riferimenti a un framework teologico-politico che sembra prendere in prestito più di una idea dai teologi di QAnon che dal discernimento dei padri della chiesa.

È forse in questa plastica rappresentazione la magna quaestio che Ceccanti pone alla fine della sua introduzione al volume: «La valorizzazione del pluralismo che portava Murray a intitolare il suo libro usando la parola verità al plurale, sulla scia della dichiarazione di Indipendenza e l’ottimismo teologico che pervade l’inizio della Dignitatis Humanae hanno un valore storicamente contingente o invece mantengono fermo il loro valore di stella fissa per la società e per la chiesa?». Per Ceccanti «Rileggere Murray aiuta a convincersi di questa seconda opzione» e, in effetti, la tutela del pluralismo e di una libertà religiosa inclusiva dovrebbero costituire un patrimonio di tutto il cattolicesimo e di tutte le democrazie liberali.

L’attuale composizione della corte Suprema degli Stati Uniti e l’influenza acquisita dal conservatorismo cattolico statunitense negli ultimi anni porterebbero a concludere in maniera opposta. Teologia e diritto si guardano allo specchio e si vedono sempre più vicine e sempre più lontane.

Dal futuro del dibattito sul e nel cattolicesimo statunitense possono dipendere, ancora una volta, il futuro della chiesa e delle democrazie liberali. Nel frattempo, alcuni studiosi cattolici statunitensi come Patrick Deneen dichiarano la “fine del liberalismo”.


John Courtney Murray è autore del libro Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano, pubblicato in una nuova riedizione a cura e con introduzione di Stefano Ceccanti, edito da Morcelliana

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