- Ikram Nazih, la studentessa italo-marocchina, che ha passato due mesi di carcere in Marocco con l'accusa di blasfemia, racconta la sua detenzione nel penitenziario di Marrakesh.
- A giugno la ragazza era stata condannata a 3 anni e mezzo di carcere e a una multa di circa 4800 euro Poi, il 23 agosto, il tribunale di appello di Marrakesh ha ridotto la condanna e Ikram è tornata in libertà
- «Pensavo che sarei rimasta in quel carcere per 3 anni e mezzo o forse di più», racconta. «Senza l'aiuto dell'Italia non mi sarei salvata».
«C'è solo un modo per definire la detenzione, e la parola è disperazione perché senti di non avere più speranza». Ikram Nazih ha i capelli corvini e gli occhi sorridenti, quelli di chi ha ritrovato la libertà. Sono passati nove giorni dalla scarcerazione della giovane studentessa italo-marocchina, nata a Vimercate e ora residente in Francia. La raggiungiamo in videochiamata a Tangeri, in Marocco, dove finalmente ha potuto riabbracciare i suoi parenti.
Un momento atteso per due mesi perché il 19 giugno, appena atterrata all'aeroporto di Rabat, Ikram è stata messa in stato di fermo dalle autorità marocchine e trasferita a Marrakesh. Poi, il 28 giugno, la sentenza di primo grado: 3 anni e mezzo di reclusione e una multa di circa 4800 euro. Ikram è colpevole di blasfemia, stabilisce il tribunale di Marrakesh.
Nel 2019 ha condiviso un post dove con un gioco di parole trasformava la sura 108 del Corano, nota come sura dell'Abbondanza, in sura del whisky. Una card tenuta sul suo profilo Facebook per solo 15 minuti, un tempo sufficiente a far scattare una denuncia da parte di un'associazione religiosa musulmana locale. Passano i giorni, Ikram è in cella e si aspetta il secondo grado.
Il caso viene portato anche in parlamento con tre interrogazioni a cui risponde il sottosegretario agli Affari Esteri Manlio di Stefano che assicura che la vicenda giudiziaria della ragazza è seguita dalla Farnesina.
Intanto, Domani lancia una petizione per la sua liberazione che viene firmata da più di 50.000 persone. Le speranze sembrano perse quando il 23 agosto l'udienza di secondo grado viene anticipata di una settimana e la linea difensiva dell'avvocato, scelto insieme alle autorità consolari italiane, funziona.
La Corte di Appello di Marrakesh stravolge la sentenza precedente: la condanna viene ridotta a soli due mesi di carcere, che la giovane studentessa ha già scontato. Anche la sanzione economica viene annullata e Ikram è finalmente libera. «Quando ho ascoltato il verdetto, ho pianto. E anche mio padre lo ha fatto. Non lo avevo mai visto piangere così tanto».
Ikram, torniamo a quel 19 giugno, quando sei arrivata in Marocco. Cosa è successo all'aeroporto?
«Erano le 8 di sera, mi trovavo allo sportello del controllo passaporti dell'aeroporto di Rabat. La polizia di frontiera mi ha portato via i documenti e mi ha detto di aspettare. Poco dopo, mi hanno preso il telefono e mi hanno chiesto di seguirli. Non hanno specificato quale fosse la causa. Tre ore dopo il mio arrivo, ero chiusa in una cella. Poi, il giorno dopo, mi hanno portata al commissariato di Marrakesh.
Cosa hai pensato in quel momento?
«Non avevo alcuna idea di cosa stesse succedendo, hanno controllato la mia valigia, ero sotto shock. Non mi hanno permesso di telefonare a nessuno. La polizia ha chiamato una mia cugina che vive in Marocco, è stata lei a trovarmi il primo avvocato. Ho avuto molta paura, la mia mente era bloccata, non sapevo nemmeno cosa pensare, chiedevo spiegazioni e nessuno me le dava».
Hai capito subito che tutto partiva dalla pubblicazione di quel post?
«No, non avevo capito. L'ho scoperto il giorno dopo, il 20 giugno, quando sono stata interrogata a Marrakesh. E' lì che mi hanno mostrato il post chiedendomi se avevo condiviso quella foto. Ho risposto di sì, ma in realtà non sapevo bene neppure cosa ci fosse scritto: io sono nata in Italia, vivo in Francia e parlo un po' di dialetto marocchino ma non l'arabo classico, che è molto diverso».
Ti ricordi cos'era successo dopo averlo condiviso?
«Era l'aprile del 2020, e non il 2019 come è stato detto inizialmente. Lo avevo condiviso perché era diventato virale ma una mia amica, dopo che l'ho postato, mi ha consigliato di toglierlo subito perché avevo degli amici marocchini su Facebook che vedendolo avrebbero potuto reagire. E' quello che è successo: uno di loro ha fatto lo screenshot della mia condivisione e lo ha diffuso sul web. Da quel momento ho ricevuto moltissimi insulti, ma non pensavo che in Marocco fosse partita addirittura una denuncia. Sono partita senza sapere nulla di quello che mi stava per succedere».
Come hai trascorso la detenzione?
«La polizia non mi ha trattato benissimo all'inizio: gli agenti mi dicevano che avrei meritato 5 anni di reclusione per ciò che avevo fatto. Dopo il rinvio a giudizio, il 21 giugno mi hanno portato in carcere. Solo quando sono scesa dalla macchina ho capito che era una prigione. Non leggevo i cartelli ma dalla struttura si capiva benissimo. In quel momento la testa è andata subito ai miei genitori. Loro erano in Francia, ho pensato al dolore che avrei causato loro ma a quel punto non avevo scelta, dovevo farli avvisare. C'è una cosa che non dimenticherò mai: il mio ingresso in cella, ero nel panico, non riuscivo a respirare. Per fortuna, ho conosciuto una ragazza che era già con me in commissariato e con cui ho condiviso un breve periodo di detenzione. Era finita dentro perché aveva aggredito un ragazzo, lo aveva fatto per difendersi dalle sue molestie. Sai quante donne c'erano in carcere senza motivo? Tante.
Per esempio, un'altra mia compagna di cella è stata denunciata dal marito solo perché chattava con un altro uomo. Io ero sotto shock. Ero in Marocco solamente per divertirmi, per me questo paese non era quello che ho visto in prigione. Lì dentro c'è tutta un'altra realtà e ci sono persone che, a differenza mia, non hanno nessuno a cui chiedere aiuto».
Perché credi di aver subito una condanna così dura in primo grado?
« Il 28 giugno mi hanno portato in aula. Sono entrata e mi hanno chiesto come si chiamassero i miei genitori e cosa fosse successo, ma mentre rispondevo il giudice non mi guardava nemmeno in faccia. Non avevo neppure un traduttore. L'avvocato ha fatto il suo meglio per difendermi ma anche se non capisco l'arabo, era chiaro quanto si trovasse in difficoltà di fronte alla Corte. Soltanto tre giorni dopo ho saputo da mia madre che ero stata condannata a tre anni e mezzo di carcere e alla multa. Quando l'ho appreso, sono piombata nello sconforto. Io mi vedevo lì già per tre anni e mezzo o addirittura cinque, che è la pena massima per il reato di blasfemia, e mi sarebbe potuta arrivare in secondo grado».
Invece il 23 agosto la sentenza è stata ribaltata. Cosa è successo secondo te?
«Il processo di appello è stato molto diverso, il giudice è stato gentile. Si è mostrato come una figura paterna, mi ha detto che sono ancora una ragazza e aveva capito che io non sapevo cosa stessi postando sui social. Alla fine mi ha spiegato che potevo uscire perché la mia condanna era stata ridotta a due mesi. Non ci potevo credere, ho pianto di gioia».
Sul tuo caso ci sono state tre interrogazioni parlamentari e una campagna di raccolta firme a cui hanno aderito più di 50.000 persone. Hai avuto modo di confrontarti in questi giorni con la solidarietà che molti italiani ti hanno espresso?
«Sì, e mi ha colpito moltissimo. Pensavo che gli italiani, essendo di origine marocchina, non si sarebbero interessati di me. E invece mi ha resa felice vedere queste persone che hanno firmato la petizione di Domani o hanno speso anche solo una parola sui social per me. E' come se anche ora, rivedendo tutto quello che hanno fatto, mi aiutassero a superare il momento che ho passato. L'ambasciata italiana è stata importantissima, senza il loro intervento forse sarei ancora in prigione. Ho appena incontrato il sottosegretario Enzo Amendola e anche a lui ho detto che senza l'Italia forse non sarei qui».
Sui social giravano degli account con il tuo nome che avevano l'emoticon del bicchiere di whisky e postavano foto osé. Secondo te sono stati creati per screditarti?
«Quegli account non sono i miei. So che esistono e credo facciano parte della campagna che si è scatenata contro di me insieme alla denuncia da parte dell'associazione religiosa».
Cosa hai fatto subito dopo la liberazione?
«Ho mangiato la pizza e il sushi perché mi mancavano, anche se in Marocco non sono così buoni. E poi ho incontrato mio papà. Durante la detenzione, da Tangeri veniva ogni giorno a Marrakesh per sapere come stavo, anche se gli hanno permesso di visitarmi solo una volta, a cause delle norme Covid. Stava malissimo, non riusciva più a mangiare né a dormire: riabbracciarlo è stato bellissimo. Non lo avevo mai visto piangere così tanto nella mia vita».
Cosa farai ora?
«Tra una decina di giorni tornerò all'Università di Marsiglia, a maggio mi ero iscritta alla laurea specialistica e non ho avuto la possibilità di proseguire perché sono finita in carcere. Cercherò di spiegare all'ateneo quello che mi è successo e spero di farmi riassegnare il posto».
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